Biografico, Recensione

NOWHERE BOY

Titolo OriginaleNowhere boy
NazioneGran Bretagna, Canada
Anno Produzione2009
Durata98'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

L’adolescenza di John Lennon: un ragazzo come tanti altri che trova nella musica un’arma per fuggire da un contesto soffocante.

RECENSIONI

Realizzato per il trentennale della scomparsa di John Lennon, Nowhere Boy, opera prima della quotata videoartista Sam Taylor-Wood, sfugge consapevolmente la mitologia da biopic preferendo un ritratto adolescenziale scevro dalla stratificata complessità dell’icona, rappresenta un ragazzo il cui passato, con i suoi sogni, fermenti, disillusioni, non è tanto distante da quello che accomuna una realtà (trans)generazionale. Un Lennon umano, né più né meno. Lo vediamo emanciparsi dal contesto borghese, abbracciare la provocazione culturale del rockabilly e infine appropriarsi della sua genialità latente che con innocua spontaneità porterà alla formazione dei futuri Beatles.
Alla base dell’omaggio però domina incontrastato un conflitto famigliare che vede il giovane diviso tra due figure femminili dominanti, l’intellettuale conservatrice Zia Mimì e l’instabile madre Julia (alla quale Lennon dedicherà il brano Mother non a caso posto sui titoli di coda), due fuochi stimolanti e problematici allo stesso tempo, le fondamenta basilari del Lennon che sarà. Come consuetudine, la famiglia è il tessuto lacerato che nonostante porti al cambiamento, alla ribellione, alla fuga, determina in maniera inconfondibile la natura dell’uomo adulto. Nowhere Boy sottolinea, con una correttezza ai limiti della rinuncia, un personaggio che reagisce alla gabbia culturale e ideologica delle sue origini attraverso una presunta naturalezza, spesso deformata da un travestimento, difensivo, della propria immagine. 

Si può con tutta tranquillità affermare quanto il film in questione presenti i propri limiti nel raffigurare il protagonista, cercando di limitare l’ingombrante rischio di trattarlo come un indiscusso mostro sacro e lasciandolo in balia di toni narrativamente (troppo) stabili, di un approfondimento psicologico che si mantiene basso per gli evidenti limiti del giovane Aaron Johnson (nella vita compagno della regista), perennemente sottomesso dalla maggiore forza recitativa delle colleghe femminili. Un John Lennon che non funziona non è roba da poco, a maggior ragione se la politica dell’opera vuole scansare ogni accenno alla sua futura ribalta (con tanto di strizzatina d’occhio nemmeno la parola Beatles viene profanata) preferendo un taglio intimo e presumibilmente genuino. Un’operazione tiepida che si lascia vivacizzare quanto basta dal repertorio musicale in sottofondo (rigorosamente rockabilly, da Vincent a Lee Lewis, da Wanda Jackson a Cochran) perché la visione procede in un’impaginazione 50’s che si preoccupa, con esiti opinabili e solo a tratti, di prendersi un pizzico di libertà (John che da autodidatta impara a suonare la chitarra, il flashback della rottura tra i genitori, l’uso della luce esterna che filtra negli interni, la giornata con la madre a Blackpool).
Voleva essere una storia come tante altre e lo è stata, solo che a tratti sembra che Lennon non sia da nessuna parte, privo di un’identità forte, di una rappresentazione solida che poteva sfruttare decisamente meglio la sua fragilità d’animo.

La videoartista Sam Taylor-Wood (dedica il film ad Anthony Minghella che l’ha incoraggiata a fare cinema) esordisce nel lungometraggio prendendo le mosse dalle memorie della sorellastra di John, Julia Baird (“Imagine this - Io e mio fratello John”) e racconta, filmando nei luoghi originali, la genesi di un genio o di una canzone, “Mother” (la udiamo sui titoli di coda, mentre le canzoni dei Beatles sono assenti e mai nominate). Con Henry Bond, nel 1993, nell’esibizione “26 October 1993”, Taylor-Wood aveva già affrontato Lennon (e Yoko Ono), rimaneggiandone alcune fotografie. La figura materna, assente, diventa centrale e l’amore per il rock è il ponte per raggiungerla. Purtroppo la regista, contro ogni previsione stante la sua formazione artistica, non pare possedere un personale stile figurativo: l’unico dettaglio ricercato della sua messinscena, sono gli insert di ricordi d’infanzia con la madre che John tenta di ricomporre. Poca cosa, soprattutto se incastonata in un testo abbastanza insapore, comune dramma di un ragazzo che ha sostituito l’affetto con la rabbia pronta ad abbracciare, con fare prepotente e strafottente, la ribellione della musica emergente. Se John Lennon, poi, possedeva senz’altro un complesso e complicato spettro di umori, questo non giustifica la poca coerenza nel tratteggiare il suo profilo psicologico. L’opera s’illumina quando descrive la nascita del Mito, dei Beatles, delle prime esibizioni e dell’incontro con Paul, musicalmente più esperto, caratterialmente più maturo ed equilibrato (ma era John il leader nato, il rock’n’roll man, il working class hero da birra, dove Paul preferiva sorseggiare un tè: più annotazioni così avrebbero migliorato il film). Kristin Scott Thomas è una presenza fondamentale: una zia autoritaria, puritana, fredda nell’esternare i sentimenti di cui, però, è colma. Nowhere Boy potrebbe essere considerato un prequel al Backbeat di Ian Softley, che raccontava i Beatles ad Amburgo.