Commedia, Storico

NOUVELLE VAGUE

Titolo OriginaleNouvelle Vague
NazioneFrancia
Anno Produzione2025
Durata105'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Parigi, 1959. Rimasto indietro rispetto ai suoi colleghi dei Cahiers du cinéma – Truffaut, Chabrol, Rivette e Rohmer, ognuno dei quali ha almeno un film alle spalle – il ventinovenne critico Jean-Luc Godard si butta a capofitto nel suo esordio da regista, Fino all’ultimo respiro.

RECENSIONI

Jean-Luc Godard ha un problema. È il 1959, gli altri giovani colleghi dei Cahiers du Cinéma hanno tutti girato il loro esordio (Truffaut, Rohmer, Chabrol… Rivette ha cominciato ma sta arrancando), lui no. Ma niente paura: arriva dal futuro un Godard già definitivo a insegnargli come fare, e Fino all’ultimo respiro potrà finalmente venire ultimato.
Questa non è, ovviamente, la vera sinossi di Nouvelle vague, ma non ne è nemmeno molto lontana. Nel ricostruire quasi giorno per giorno la realizzazione del debutto godardiano, la maniacale cura per la verosimiglianza di superficie (straordinario il lavoro sul cast, straordinaria la capacità mimetica del protagonista) è solo una faccia della medaglia: l’altra è, appunto, il Godard monolite di stesso, monumento di se stesso, creato incollando insieme citazioni e posture anche molto successive al 1959, che si fa centro propulsore delle riprese e le indirizza verso dove devono andare, anche quando sembra non fare nulla e il set sembra totalmente centrifugo e improvvisato. Linklater non è interprete banale della Nouvelle vague, e tiene in primo piano uno dei suoi caratteri più distintivi: non l’attaccamento alla fugacità del presente in se e per se, ma la tensione tra questa e l’eternità.
Tensione, questa, parallela a quella tra cronaca e mito che verrà poi importata dalla New Hollywood degli anni Sessanta e Settanta; New Hollywood di cui Linklater già dagli anni Novanta voleva essere la versione, per così dire, liofilizzata ad uso di una generazione cresciuta con MTV. E in effetti l’intento anche pedagogico di questa sua operazione regge: chi di tutto questo non sa nulla ne imparerà qualcosa, e non in maniera superficiale.
L’intento principale, in ogni caso, più che quello pedagogico, e al di là della pur importante componente mimetica (le mezze panoramiche che tremano come sarebbero tremate nel 1959; l’attenzione filologica per le luci e i pattern visivi sobri ma attraversati da incrinature in pochi punti strategici) è quello di virare sistematicamente, programmaticamente in commedia la tensione tra l’istante presente e il definitivo, tra cronaca e mito, pur prendendo questa tensione strenuamente sul serio. Da decenni Linklater imposta la sua filmografia come una specie di “Coppola tascabile”, quello degli anni Ottanta (Cotton Club, Tucker…), che anche di fronte all’evidenza contraria (e al fallimento finanziario) crede nel pragmatismo a stelle e strisce, anche in forma di anacronistico fantasma di se stesso, come panacea capace di ricucire qualunque frattura, comprese quelle che non possono non crearsi, sulla pelle del film e fuori, dall’importazione coatta dei modernismi europei. La nouvelle vague fu l’istituzionalizzazione del jump cut, dello squilibrio, della discontinuità come matrice stessa della costruzione dello spazio filmico; per quel problem solver che è il Godard linklateriano, tuttavia, non esiste frattura che non si possa ricucire (il che produce in sovrappiù una, peraltro corretta, riabilitazione del più “quadrato” Truffaut nella buona riuscita dell’impresa), e a ricucire la dialettica cronaca-mito c’è, meccanicamente ma dinamicamente, molto spesso la gag più o meno aneddotica, il marcantonio Raoul Coutard che si rannicchia con la cinepresa nella scatola col buco per l’obbiettivo, il Rossellini indebitato che ruba le tartine ai cocktail, e così via.
Non c’è frattura che non si possa ricucire, l’azione è l’azione è l’azione anche quando il postmodernissimo “nostalgia film” spalma una patina di soffocante passato su tutto, in ogni momento il messia del dinamismo può entrare nella stretta porta del presente. Se si apre l’abisso in fondo basta un piccolo balzo per attraversarlo, e chi ci casca dentro peggio per lui – o per lei, come nel caso di Jean Seberg, qui impegnata in un serratissimo agone con Godard ma comunque personificazione di un “lato oscuro” che avrà tutto il tempo di sopraffarla negli anni successivi (e i segni, a ben guardare, ci sono già). Ecco, Nouvelle vague in buona sostanza esorcizza il demone malinconico che pure tanta parte ebbe nel movimento omonimo (e Linklater lo sa: «È troppo tardi» è una delle primissime cose che fa dire al suo Godard), dando spazio a Jean Seberg solo per esorcizzarla. Agli antipodi assoluti di Philippe Garrel (Innocenza selvaggia in particolare), non c’è lutto che non possa essere elaborato: nata quando il suo cinema preferito cominciava a tramontare per sempre, la Nouvelle vague, abbastanza plausibilmente, è stata per Linklater la forma stessa dell’ottimismo (o del suo fantasma immaginario).