Poliziesco

NOTTE SULLA CITTÀ

TRAMA

La routine di un sbirro, Coleman, che prende servizio quando a Parigi cala la notte. Chiamato a indagare su una rapina in banca, scoprirà che è il pretesto per un colpo maggiore e affronterà la banda di Simon; i due sono attratti dalla stessa donna.

RECENSIONI


L’ultimo affondo Melville è un film d’ombra, prigioniero del crepuscolo (dell’autore, dei personaggi… del genere?), che ripassa le amate suggestioni e le risolve in chiave soffusa e sepolcrale, mettendo in scena una manica di spettri prossimi al dissolvimento. C’è tutto: il meccanismo implacabile di sospensione, che si apprezza nella ripresa in banca – un avvolgente ballo di posizioni – e nella sequenza del furto della valigia – per durata, intensità, disposizione scenica quasi gemella dell’assalto ai lingotti in Le deuxième souffle -, il sapiente ricalco dell’archetipo nel tratteggio dei personaggi, il romanticismo asciutto e ormai praticamente annichilito, la mano del fato. L’intreccio sboccia in fieri, imprigionando Coleman nell’auto di pattuglia prima dell’inizio del film, seminando dettagli di una fioca quotidianità e lanciando una rete soffocante di tormenti passati oggi attutiti. Lo stesso noir appare introiettato e immobilizzato nelle sue forme e declinazioni – la singolarità dell’uomo, solo con il destino, trova sintesi nella secchezza del titolo: un flic - e vestito per la fase del ripasso. E’ su questo tessuto che si innesta il discorso scenico dell’autore, che apre su un’amniotica ripresa marina per esporre la consueta teoria inesorabilmente sospesa: la lunga masquerade di Richard Crenna (il criminale si infila il pigiama, cfr. Jean Gabin in Gribsbì di Jacques Becker) possiede il calcolo della sintesi stilistica, che nel preludio dell’azione sovrappone totalmente il tempo del film al tempo della realtà, poggiando su gesti e oggetti – lo specchio, il pettine, le pantofole -, favorendo la nascita caratteristica della tensione fino all’istante del botto (il furto). Un flic riprende inoltre le fila della diatriba sull’Inevitabile e lo umanizza definitivamente in Catherine Denueve, polo chimico (il Destino è una formula?) che attira i due uomini inevitabilmente e, avvicinandosi al momento del contatto, prepara l’esplosione conseguente. Ha davvero le stimmate di ultimo film, questo lavoro che inciampa volutamente nella meccanica dell’intreccio (tre banditi: uno ucciso, l’altrosuicida, l’ultimo prepara lo scontrofinale/fatale) e infine, in una manica di battute impagabili, copre di un velo ambiguo i volti delle pedine; lascia il dubbio nell’aria – perché Coleman ha premuto il grilletto? – e finisce di dibattersi, tornando chiuso in pattuglia, riportandosi anche fisicamente tra le sbarre di un cosmo determinato.