Drammatico

NON ESSERE CATTIVO

TRAMA

Cesare e Vittorio sono legati da una forte amicizia che resiste anche quando i loro destini si separano: Vittorio cerca di salvarsi e di integrarsi attraverso il lavoro, mentre Cesare affonda nell’inferno della droga e dello spaccio.

RECENSIONI

Film postumo di Claudio Caligari, inseguito per anni, Non essere cattivo non è un testamento ma una chiusura del cerchio, che si apre citando se stesso (con il gag del cono gelato ripreso da Amore tossico) e dal protagonista del precedente L'odore della notte, l'amico Valerio Mastandrea, è stato appassionatamente e testardamente sostenuto, nel ruolo di produttore e di 'sesto uomo', come lo etichettano i titoli di coda del film. Il cartello d'apertura recita «Ostia, 1995»: vent'anni fa, l'età di un film che forse esisteva già allora, in embrione.
Ostia è una prigione a cielo aperto, una gabbia senza pareti per Cesare e Vittorio, per il proletariato che sulle sue spiagge, nelle sue case popolari, è impantanato come nelle sabbie mobili. Le esistenze dei protagonisti sono intrappolate in una coazione a ripetere di cui non si vede l'uscita: non c'è via di scampo da Ostia, non c'è svolta che tenga quella che cerca, citando Amore tossico, Cesare nell'incipit del film, e il senso di prigionia è palpabile paradosso in un film che si svolge per gran parte in esterni. La spiaggia, la strada, il cantiere senza pareti e la grande casa diroccata 'senza porte' dove Cesare tenta di imbastire una vita nuova: sono luoghi aperti, da cui non si esce. L'orizzonte è impallato dalla mancanza di denaro e di ambizioni, e la strada di Cesare e Vittorio è punteggiata di mezzi di trasporto imprendibili, di viaggi impossibili: le automobili rubate (che, come nel flashback della rapina fallita, nemmeno si mettono in moto); la barca di lusso dei trafficanti d'eroina; il mare che è meglio non guardare nemmeno; l'autobus onirico, popolato di sirene e circensi, che compare in mezzo alla carreggiata davanti agli occhi allucinati di Vittorio; il tramonto esotico di palme su fondo tropicale, incollato sul muro dello scalcinato salotto di casa, davanti al quale si spegne Cesare, con tragica ironia.

Quel fuori, quell’altrove, non esistono, nelle esistenze di questi due giovani uomini che sono i figli, i nipoti inconsapevoli, degli accattoni di Pasolini: il lavoro è una bestemmia, i lavoratori sono falliti da schernire («ma che è, un’epidemia di lavoro?» domanda il Brutto quando anche Cesare tenta, di malavoglia, di giocarsi la carta del cantiere come «muratore rifinito»), non c’è alcuna realizzazione, alcuna affermazione nella possibilità di un mestiere. Neanche quella è una via di fuga, per la metà “rinsavita” della coppia di protagonisti, quel Vittorio che dell’accattone pasoliniano porta il nome e che trova una donna, un figlio acquisito, una parvenza di serenità (fasulla, smentita subito dalla fame della nuova compagna: «A te basta?» chiede inferocita, lei che, come Cesare, vuole di più, crede che ci sia di più in quel fuori che non si vede neanche col binocolo). Caligari ha inseguito e omaggiato Pasolini per tutta una vita, per tutta una carriera, dapprima letteralmente (quando, da giovane, ambiva a lavorare su un suo set, speranza stroncata dalla morte di PPP), poi con l’assonanza di una traiettoria geografica (Caligari, come Pasolini, era originario del nord, piemontese: e in quel territorio ha mosso i primi passi come autore: Perché droga, da lui co-firmato nel 1976, documenta la tossicodipendenza nel quartiere Mirafiori di Torino, La parte bassa registrava invece il fallimento dei movimenti proletari e studenteschi nel 1977 a Milano) che l’ha portato ad approcciarsi alla realtà romana da trapiantato, con un rispetto e una lucidità impressionanti. Guardando quell’umanità, dandole voce, inquadrandone i corpi dentro il corpo sociale, mettendo davanti all’obiettivo una parte di Italia che al cinema raramente si vede.

Caligari, con Pasolini nel cuore, ha intessuto un romanzo criminale dal respiro popolare, potente e teso, asciutto anche nei risvolti melodrammatici (l’ingiusta, inaccettabile morte della nipotina sieropositiva), tragicamente ironico. Un registro arduo e compatto, fra il naturalismo e una stilizzazione sanguigna: come un fumetto di Andrea Pazienza, che pare incarnarsi nei tratti scavati, nel corpo irrequieto di un ipercinetico, mostruosamente bravo Luca Marinelli. Un film che ha la precisione dell’occhio inquisitorio del Caligari documentarista ma è pure pulsante, «fatto di vita e di morte, fatto di sangue, il sangue nostro» (come chiosava Cesare, il primo Cesare, in Amore tossico davanti al muro imbrattato). Che ha Scorsese nei muscoli (l’amicizia virile, il destino opposto e diversamente dannato dei due protagonisti, per ammissione di Caligari stesso è ispirato a Mean Streets) e i vitelloni di Fellini nell’anima: citato esplicitamente, dal grido di scherno «lavoratoooooreeee» del Brutto e dalla sua sciarpa avvolta intorno alla testa come Alberto Sordi nella celebre scena felliniana, è una sottotraccia di languore della provincia che avvolge come un sudario i protagonisti. Come la Rimini del Dopoguerra, Ostia nel 1995 è un carnevale funereo, un mare d’inverno che ammazza lo spirito, un vicolo cieco in cui i personaggi – la banda del Brutto ora come, allora, Alberto e i suoi amici – si accasciano in cerca di un raggio di sole, fuori dal bar, accettando immobili la propria stasi.
Nemmeno chi si accontenta gode: Vittorio, che è Vittorio (Pasolini) e Moraldo (Fellini), prova a farsi bastare la miseria che ha, prova a girare le spalle al mare per non farsi venire i pensieri e non vedere le sbarre in cui vive. Limiti che ottundono la vista del più esuberante, più inquieto Cesare, che è sia Vittorio (Pasolini) sia un altro Cesare (il protagonista di Amore tossico): quando realizza il suo scalcinato sogno d’amore con Viviana, nel proiettare su schermi immaginari il loro futuro lo vede popolato di uno stuolo di figlie, tutte battezzate Viviana, piccole repliche di ciò che già conosce, come se nemmeno un altro nome fosse immaginabile. E nel finale, quell’ultima sequenza che si appoggia al film come un cerotto su un’emorragia, si chiama ancora Cesare il bimbo nuovo venuto al mondo (dove il mondo, però, è sempre Ostia): una fonte di speranza, per i sopravvissuti, ma anche un’ombra di predestinazione senza scampo. Quel bimbo è un terzo Cesare, che nel 2015 ha vent’anni, e chissà se guarda il mare, chissà se gli vengono i pensieri.