Commedia, Recensione

NON È GIUSTO

TRAMA

Napoli, estate: l’amicizia fra i preadolescenti Sofia e Valerio, in procinto di partire per le vacanze…

RECENSIONI

I bambini ci guardano, e noi, secondo Antonietta De Lillo, non ricambiamo le loro attenzioni, forse perché non ne siamo (più?) in grado: prede di un’immaturità cronica (e di conseguenti rimpianti e risentimenti), gli adulti scaricano sui figli il peso delle proprie frustrazioni. Ultima dea dell’infanzia è l’amicizia, unita all’ostinato desiderio di crescere il prima possibile (anche per limitare i danni). “Non è giusto” è un poemetto schierato dalla parte dei più piccoli, di cui rispecchia non solo il punto di vista, ma lo sguardo, nel senso più cinematografico del termine. Il digitale fornisce alle immagini un aspetto impolverato e insieme liquido, che rende quasi tangibile l’atmosfera estiva, la serenità screziata di noia delle giornate sempre uguali, il denso silenzio notturno, interrotto da frasi smozzicate; il frequente ricorso a soggettive, inquadrature oscillanti e primissimi piani fa del racconto un vero diario di bordo, il resoconto di un “esperimento” di approccio alla vita, disastrosa e immobile come in una pièce di Beckett. Il difetto principale dell’opera è costituito non tanto dal fatto che si tratta di un film a tesi, quanto dalla totale mancanza di antitesi: i personaggi sono dati (non suscettibili di modifiche) alla prima apparizione, i membri delle due “squadre” (adulti e ragazzi) risultano delineati in modo manicheo, rispettivamente come bambinoni bugiardi, viziati, isterici e teneri virgulti condannati a svilupparsi fra le sterpaglie. L’Antoine Doinel di Truffaut aveva almeno qualche difetto… “Non è giusto” non sa (non osa) essere qualcosa di più che una corretta, a tratti anche piacevole, riproposta di luoghi consueti sul tema del passaggio dall’età delle favole a quella della realtà (il bambino che nota quanto sia invecchiato il padre, la ragazza del tutto consapevole delle dinamiche familiari che il genitore vorrebbe nasconderle). I conflitti intergenerazionali? Tutto si riduce a Valerio che prende la mira (citazione di “If…”o di “Novecento”?) e ad Armando che rifiuta di mangiare alla stessa tavola con papà. Il dialogo è piattissimo, l’intreccio adulto rivaleggia con quello di una fiction, quello infantile non esiste, ed è un bene, perché, in tal modo, non rischia di sottrarre spazio ai lunghi silenzi, agli sguardi, alle invenzioni visive (ralenti, dissolvenze, dissonanze colori/suoni) che la regista inserisce con grazia e una punta di compiacimento. Spaventoso l’abisso che separa i giovanissimi interpreti dai colleghi più cresciuti: i ragazzini vivono i personaggi e le storie con una bella disinvoltura “stropicciata”, non ancora ingoffita dalla pubertà né inquinata da manierismi televisivi, gli adulti recitano (maluccio) stinte macchiette, infarcite di birignao e isterismi da soap. Può darsi che si tratti di un effetto voluto (ancora una volta, pura naturalezza e distorta simulazione), ma lo squilibrio che ne deriva causa più noia che consapevole straniamento. La ripetitività di alcune sequenze è temperata dalla presenza pressoché permanente di Daniel Prodomo e Maddalena Polistina, ragazzi “normali”, enigmatici come elfi.