TRAMA
Antoine Doinel si fa assumere da una multinazionale statunitense. Ha una moglie, un figlio e un’amante giapponese.
RECENSIONI
Drammatizziamo l’osceno titolo italiano e rinominiamolo "L’imborghesimento di Antoine Doinel", alter-ego di Truffaut (e Léaud) seguito nella crescita in sei capitoli (siamo al quarto): borghese è il matrimonio, l’assurdo lavoro (da pittore di fiori a manovratore di modellini di cantiere) nel capitalismo (la multinazionale, l’incombenza U. S. A./Giappone, la disumanizzante urbanizzazione di Play Time, vedi il cameo di Tati), l’ipocrisia dell’amante segreta, la separazione, il ritorno al domicilio coniugale, il rifugio fra le braccia delle prostitute e della televisione. La metamorfosi si conclude in un finale emblematico, dove la coppia riconosce se stessa in due coniugi più anziani di cui avevamo assaggiato la squallida esistenza durante tutta la pellicola. Doinel conserva tutte quelle qualità che Truffaut adora: la schiettezza, la generosità (i soldi che presta continuamente al russo), l’assenza di malizia, il desiderio di scrivere, il candore di un bambino (quando nasce il figlio); ma basta poco per annullarsi nel circolo vizioso della società moderna (sintomatica la gag a bassa definizione con cui cambia mestiere: brucia i fiori del suo precedente lavoro e si ritrova ad un divertente colloquio da colletto bianco). Come sempre, Truffaut elude il più possibile messaggi, simbolismi e psicologismi per ancorarsi al fenomenologico e trattare l’amore, eterno solo nel compromesso: la sua opera buffa è scanzonata, spiritosa (non sempre), in bilico fra parodia (Léaud pare fare il verso ai ruoli da contestatore datigli da Godard) e tenerezza (senza passione e trasporto, purtroppo), fra vezzi (cita quasi tutte le sue opere precedenti) e battute (anche Baudelaire iniziò con’"I fiori del male") godardiane e pungente causticità.
