Drammatico

NON DESIDERARE LA DONNA D’ALTRI

TRAMA

Michael, militare di carriera, è marito felice di Sarah e padre sereno; il giorno in cui ritrova il fratello Yannik – uscito dal carcere che ha scontato per una rapina – deve partire col proprio contingente per l’Afghanistan. Quando viene dato erroneamente per morto, la solitudine e il dolore avvicinano Sarah e Yannik. Per tutti verrà il momento di affrontare drammatiche scelte.

RECENSIONI

Ogni bivio etico implica uno shock, ma non per questo può essere eluso o liquidato con sufficienza. Va anzi affrontato, sfidato con calma fronte; bisogna addentrarsi nei suoi labirinti ostili e perdervisi, per sperare di trovare una via d’uscita e tornare a vedere la luce, o almeno una luce, se è vero come scrive Emily Dickinson che è meglio un fuoco fatuo / che la totale assenza di luce. Tematizzare oggetti siffatti non è facile, ma il cinema vi si è cimentato più spesso di quanto comunemente si creda, con esiti anche commendevoli; a dimostrazione di come anche una forma d’espressione popolare sia permeabile ai dilemmi dell’epoca. Nel nostro paese non ha mai arriso troppa fortuna a un’arte così impegnativa. Ignoriamo se la ragione storica sia da rintracciare nella scarsa attitudine all’indagine introspettiva, tutti presi come siamo stati dal culto delle forme, delle cerimonie e delle parate; o nel digiuno di speculazione cui ci hanno costretto aspersòri e manganelli, cascami idealistici e teologici sofismi; o ancora nella tacita consapevolezza che troppo grande sarebbe la vergogna di scoprirci proni a ogni soperchieria, in questa plaga che non ha conosciuto se non sparuti e comunque fallimentari conati rivoluzionari (uno dei quali ben raccontato da De Lillo nel recentissimo Il resto di niente), e in cui tartufescamente tutto si arrangia; o infine, più elementarmente, in una congenita pigrizia allo sforzo intellettivo, oggi alimentata – presso una popolazione ove l’analfabetismo diretto e di ritorno assume proporzioni impressionanti (leggere, per credere, La cultura degli italiani) – dal Grande Badante televisivo.
Quando il ciclone Von Trier si abbatté sulle acque placide del nostrano stagno cinematografico, se le attenzioni critiche si appuntarono doverosamente sull’aggressività linguistica e poetica del danese, solo in minima parte suscitò entusiasmo la radicalità tematica, che egli pretendeva fosse tutt’uno con la radicalità dello sguardo. Al contrario, l’assolutezza degli aut aut cui egli conferiva un corpo di celluloide fu interpretata come rigida e semplicistica visione del mondo, e come rozzezza drammaturgica (vistosa falla ermeneutica riprodottasi di fronte ai recenti Dancer in the dark e Dogville).
Dietro (quasi) ogni maestro, compitano gli allievi e fioriscono le scuole. Abbiamo di fronte, all’occasione, la diligente Susanne Bier, meno saccente e sgradevole di un Vintenberg, ma di lui anche meno graffiante e polemica. Il film inizia come meglio non si potrebbe, tratteggiando rapidamente le dinamiche famigliari dei protagonisti: la conflittuale ma salda vicinanza dei fratelli, diversi per carattere e filosofia di vita; la presenza fastidiosamente ingombrante di un genitore che non perde occasione per esaltare il successo professionale e affettivo di un figlio e criticare, nel silenzio imbarazzato dei presenti, l’inconcludenza e il disadattamento sociale dell’altro; la civile freddezza fra i cognati; l’affettuoso, aperto rapporto della coppia con le bambine. Questo breve prologo è un esempio di scrittura trasparente ed efficace: senza alcuna forzatura o sottolineatura ci vengono mostrate le linee di forza che governeranno buona parte della vicenda. Ed è un esempio che dovrebbe essere studiato da alcuni ambiziosi e confusi cineasti nostrani, a mal partito nel costruire anche la più modesta delle progressioni drammatiche. In seguito, due sono i binari sui quali la regista sviluppa la trama, ricorrendo alla funzionalità discorsiva del montaggio parallelo prima, quando marito e moglie sono separati – ed è singolare e toccante la calma commossa del lutto e della “vita senza il marito/fratello” di Sarah e Yannik, mentre l’anziano padre non riesce a mutare il proprio atteggiamento disaffettivo e sgarbato nei confronti del figlio creduto superstite; del più serrato montaggio alternato poi, quando Micheal sarà tornato a casa: da un lato la potenza rigeneratrice della solidarietà e dell’affetto, che inducono la trasformazione di Yannik da contestatore guascóne e irresponsabile in premurosa e solida presenza a fianco delle tre donne; dall’altro la loro soffocante impotenza, quando un’azione terribile compiuta per spirito di sopravvivenza – in una concretizzazione letterale del mors tua vita mea, rappresentata oltretutto con scabra forza e senza effettacci – scava un abisso forse insuperabile tra Michael e i suoi cari. Ora è lui il marginale, incapace di chiedere perdono, instabile e destabilizzante, forse pericoloso componente della famiglia, mentre il fratello è colui che viene in aiuto e a cui ci si può affidare senza tema. La moglie non l’ha tradito, il fratello neppure; eppure da qualche parte, in uno degli infiniti angoli bui dell’esistenza e del destino che albergano in ciascuno di noi, il tradimento è avvenuto: incolpevole ma fonte di sensi di colpa; ed è il senso di colpa per un misfatto anch’esso incolpevole a consumare Michael, a deformare ai suoi occhi la realtà fino a strapparle, oltre le apparenze, un veridico presagio.
Nell’ultima parte il film delude: c’è qualche psicologismo di maniera in eccesso e, soprattutto, la lucidità nell’illustrazione di quella nuova prigione in cui si è trasformata la vita domestica cede il posto a un sentimentalismo molliccio. Il rischio era nelle cose, d’accordo; ma proprio per questo ci si sarebbe attesi uno sguardo più vigile dalla regista. Infine, dopo il momento di massima crisi in cui Michael rischia di uccidere la moglie, lo scioglimento è alquanto frettoloso e schematico, improntato a un’onesta ma troppo ingenua speranza, con Sarah che accoglie sul proprio grembo il marito piangente, finalmente disposto a raccontare che cosa ha dovuto affrontare quand’era prigioniero, e a che prezzo ha potuto serbare la sua vita. Intenso ma diseguale, coraggioso e di discreta statura espressiva, coscienzioso prodotto dell’ultima evoluzione della scuderia Von Trier (macchina a mano non più su un mare in tempesta, ventaglio cromatico rigoroso ma non del tutto intransigente, musica extradiegetica revocata dall’ostracismo) il film si avvale in Italia, per nostra sfortuna, di un titolo che è preclaro esempio di ammiccante ottusità da sagrestia e, per fortuna del pubblico orbeterracqueo, di un terzetto di attori in stato di grazia: Ulrich Thomsen – già un veterano, si potrebbe dire, nella discesa agli Inferi famigliari – Nikolaj Lie Kaas e l’iperluminosa Connie Nielsen.

Il Dogma è un filo sottile: se alla Bier era riuscito l’equilibrio nell’imperfetto e convincente OPEN HEARTS, qui si risolve in un capitombolo. Mentre la prova precedente personalizzava il “voto di castità” piegandolo alle proprie esigenze (cfr. l’inciso onirico), donandogli, in una parola, il suo perché, mi pare che NON DESIDERARE scivoli nella tediosa questione di principio con tutte le scarpe. Prosciugata la sottigliezza stilistica del predecessore (ad esempio: la camera a mano a ritrarre un incidente), qui si procede per tappe di una via crucis floscia ed abusata; non si risveglia davvero alcun interesse nell’ammirare il classico dramma famigliare, frettoloso esercizio di taglio & cucito da ben altre storie (già scritte), né tantomeno nell’infliggere il parallelo affresco di guerra calato nell’atavico teatrino di crudeltà (ghiotta occasione per qualunque handycam, figurarsi una vontrieriana). Nido squarciato, lutto, disagio, nascita di un rapporto, colpo di scena, ritorno del caro estinto, confronto (il desco si risolve in una piazzata, FESTEN è dietro l’angolo), tensione, risoluzione: l’energica danese – che nell’aderire ad una “scuola” (si fa per dire), invece di pascolare a briglia sciolta, trova un evidente limite – sfoglia casualmente un puro formulario, dagli occhi umidi dei bambini sino al disagio sociale (uguale galera) passando per una sana inalazione di violenza focolare (tra moglie e marito...). Troppo debole l’intreccio, troppo manierata la sua conduzione, troppo aritmetico il finale (dolore + dolore = catarsi); e se preferiamo un tentativo pulito e vitale, seppur bacato alle fondamenta, alla gravida presunzione di taluni maestri (Lars, mi senti?), rimane tuttavia una classifica in negativo.  La bellezza sofferta di Connie Nielsen e la fierezza scalfita del feticcio Nikolaj Lie Kaas fanno la coppia giusta nel posto sbagliato.

Lo stile di Susanne Bier, nella prima parte, irrita: racconta un melodramma di genere ma lo fa con vezzi autorali al limite dell’incomprensibile, fra immagini oniriche (spighe di grano, sabbia e un’iride), macchina da presa a mano, luci finto-naturali (perché con colori in realtà studiatissimi) e un impercettibile iris che contorna l’immagine di nero. Sono scorie della sua adesione al Dogma che poteva benissimo evitare (superflue), a maggior ragione rivolgendosi (anche) a un pubblico americano (che ha gradito, comunque). Anche lo script, realizzato a quattro mani con il regista Anders Thomas Jensen, pare avere tracciati prevedibili: la falsa morte annunciata, le mutazioni di un fratello irresponsabile, il nuovo amore inficiato dal fantasma del passato. Ma la drammaturgia robusta, empatica e ben recitata e, in particolare, un risvolto assolutamente magnifico del racconto, anche nel suo simbolismo, finisce con sopravanzare qualsiasi velleità, impadronendosi del set con temi che conquistano: il rubare la vita altrui che mangia l’anima, il ritorno immerso nel senso di colpa, come se il resuscitato non meritasse i soggetti del suo desiderio (si tiene a distanza). Il plot prende cioè pieghe inattese nel momento in cui si struttura come se il ritorno non fosse previsto e, nel finale, sembra premiare quale gesto d’amore la vendita della propria anima. Scene ad alta drammaticità degne del miglior cinema esistenzial/bellico anni settanta (vengono in mente Cimino, Scorsese), dove le figure maschili sono per lo più fallaci e quelle femminili (oltremodo) santificate. Titolo italiano davvero imbarazzante (l’originale: Fratelli): denota ancora una volta la nostrana provincialità cattolica.