TRAMA
Howard Spencer abbandona il set del film western che sta girando per tentare di ricomporre i cocci della sua esistenza.
RECENSIONI
Torna all’intimismo Wenders e questa è già una buona notizia: l’autore, uscito dall’elucubrazione mentale (unica definizione per le recenti prove), qui vuole soltanto a raccontare una storia, seguendo un finto cowboy in fuga da un finto western ricostruito nello Utah. Da questa mossa doppiamente suggestiva (dal punto di vista visivo – a capofitto nel discorso metafilmico – e concettuale) un film intimo e cadenzato, che fa d’ogni ruga del suo protagonista nascondiglio per gli spettri passati e d’ogni passo uno slancio in avanti per ricominciare, sotto l’ombra ronzante dell’eterno rimpianto. Se da una parte KNOCKING ricorda finalmente gli ingredienti per fare cinema [prove intense (oltre al solito Shepard spicca un’acuta Jessica Lange), paesaggi di ampio respiro (al limite col bozzetto), minimalismo nudo di afflato universale] dall’altra si abbandona inerme ad una trama dalle mille imperfezioni: il figlio (compagno, padre…) prodigo che innesca un doloroso confronto cade presto nel banale, valorizzato da una lieve spruzzata paradossale (la ragazza con l’urna, la sequenza allucinatoria di Howard sul divano) ma giustiziato definitivamente da soluzioni inverosimili (la facile riconciliazione con la prole) sino al solare annacquamento di brodo, che scodella comprimari invisibili (il compagno di scuola) e segna l’involuta tendenza a ripetere (/sottolineare) passaggi narrativi (che si presume) già significativi di per sé. Si innesca il pilota automatico per uno svolgimento che, focalizzando sulla disamina dello sfondo americano (tra set e realtà), è confezionato egregiamente ma costringe il nocciolo della questione dietro le quinte, non evitando neanche quel graduale ma inarrestabile scivolamento nella retorica – apoteosi è la sequenza finale: padre e figli in un abbraccio strappalacrime – cui il cineasta ci ha ultimamente abituati.