Horror, Recensione

NON APRITE QUELLA PORTA (2003)

Titolo OriginaleThe Texas chainsaw massacre
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Genere
Durata98'
Sceneggiatura
Tratto dadalla sceneggiatura dell'originale del '74 scritta da Kim Henkel e Tobe Hooper
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un gruppo di ragazzi, di ritorno da una vacanza in Messico, si sta dirigendo verso Dallas per assistere a un concerto. Durante il viaggio rischiano di investire una strana ragazza che cammina in stato di choc lungo la strada. Da quel momento il loro destino è segnato.

RECENSIONI

La Porta che non voleva stare chiusa

Aperta trent'anni fa da Tobe Hooper, "quella porta" ha continuato a spalancarsi saltuariamente su mostruosità ufficiali (due i seguiti) e apocrife (il terzo capitolo di Claudio Fragasso) imprimendosi nella memoria del cinema e negli incubi degli spettatori. Il blockbuster-man Michael Bay ha fiutato l'aria da new-horror che si respira nelle sale e, complice l'assenza di fosforo cinematografico delle nuove generazioni, ha deciso di produrre l'ennesimo rifacimento. Provando, e non è facile, a uscire dal pregiudizio con cui si è obbligati a confrontare un prodotto originale con la sua scopiazzatura, ci si trova di fronte ad un film tutto sommato riuscito. Rispetto al "cult" di Tobe Hooper ci sono alcune varianti (che faranno inorridire o godere i fan), ma nell'insieme l'atmosfera di malsano orrore del capostipite è restituita con i medesimi effetti disturbanti. La storia, come i più sapranno, prevede la dettagliata cronaca di un massacro: cinque giovani entrano per loro sfortuna in contatto con il delirio di una famiglia di cannibali assassini, sperduta in un punto imprecisato dell'immenso nulla che caratterizza il profondo sud degli Stati Uniti. Una gita tardo adolescenziale diventa così una strage. Il fatto che l'allucinante racconto si ispiri a fatti realmente accaduti suscita un surplus di tremore. Il team di ragazzotti non brilla per simpatia e intelligenza (era così anche nell'archetipo), ma le psicologie sono assottigliate all'essenziale per lasciare spazio all'azione. I personaggi sono infatti colti alla sprovvista davanti ad una situazione di inaspettato terrore e l'unica cosa che possono fare è provare a reagire. Il film segue con grande senso del ritmo la calata agli inferi dei giovani protagonisti e riesce, cosa non facile, a contagiare anche lo spettatore, che si trova catapultato in una realtà raccapricciante. La rozzezza dei movimenti di "Faccia di Pelle" e la determinazione con cui si accanisce sulle vittime, non si dimenticano facilmente, così come il repentino passaggio dalla vacua spensieratezza all'impensabile. Il regista (il tedesco Marcus Nispel) viene dal videoclip e si vede, ma non esagera con accelerazioni, rallenty e dettagli in primissimo piano: i momenti di tensione non si devono unicamente, come il più delle volte accade nei blandi horror che stanno invadendo le sale da un anno a questa parte, a stacchi di montaggio o effetti sonori, ma proprio alla paura delle situazioni; lo splatter, inoltre, non diventa scopo primario, ma viene razionato con adeguata misura. Il direttore della fotografia Daniel Pearl è lo stesso dell'originale, ma rispetto alla sporcizia molto "seventy" del film di Hooper, sceglie immagini più patinate (non per questo meno efficaci). Lo stesso Tobe Hooper ha comunque partecipato al progetto nelle vesti di co-produttore. Di un po' irritante ci sono alcune scelte accalappia-teenager, come la bellezza da spot dei protagonisti o il look più "vintage" che anni settanta, ma sono perdonabili strategie di marketing che si limitano a scalfire la superficie del risultato. Bruttino e furbetto (un seguito è in agguato), invece, il finalissimo alla "Blair Witch Project". A uscirne con le ossa rotta, oltre ai personaggi, anche l'istituzione famigliare (covo di pulsioni malsane vissute come "normalità") e i rapporti interpersonali (per una volta niente eroi e solo verso la fine fanno capolino la pietà e un briciolo di solidarietà). Se tutto ciò aveva un senso di rottura trent'anni fa, nel nuovo millennio non sembra volersi caricare di nuovi significati, a parte il semplice e sconfortante concetto (vero specchio dei tempi) che per salvarsi occorre essere i più belli (vedere la protagonista Jessica Biel per credere). Pur scontando una sempre più preoccupante assenza di fantasia e l'incapacità di far sopravvivere il cinema al passare delle mode (perché non rieditare il film di Tobe Hooper invece di rifarlo?) il remake di "Non aprite quella porta" è un riuscito film di "genere". Meno ruvido del "cult" da cui trae origine, ma non per questo annacquato.

The Texas Gein Massacre Project

Non c’è da lamentarsi. L’esordiente Nispel rende sostanzialmente giustizia al cult di Hooper (qui nelle vesti di co-produttore) confezionando un horror teso, violento e sufficientemente allucinato. Se è vero, infatti, che i giovani protagonisti del film sembrano appena usciti da uno spot Levi’s e che regia e fotografia non si/ci risparmiano evitabili indulgenze clipparole, questo “re-made” The Texas Chainsaw Massacre mantiene il potenziale ansiogeno e l’asfissia claustrofobica che caratterizzavano l’originale, confermando così la “bontà” dell’elementare, quasi primordiale, spunto di partenza. Sconfortanti e “paurosi” sono il senso di impotenza e di ineluttabilità che pervade entrambe le pellicole, nelle quali non si intravedono mai linee di fuga o vie di scampo possibili e percorribili dai malcapitati, plausibilmente immersi in un mondo folle e delirante che sfugge ad ogni logica e “complotta” compatto contro i corpi estranei. Genuinamente inquietante la casa-museo della famiglia Hewitt, tappezzata di materiale organico artistoidamente assemblato; sempre “affascinante” il mitico Leatherface, ingenuo bamboccione che si diletta in macello, squarcio e cucito armato dell’immancabile e assordante chainsaw. Tutto déja-vu, certo (è riproposta anche, a sesso invertito, la memorabile scena del gancio), ma servito con cognizione di causa e padronanza del mezzo (si veda il ben “temporizzato” inseguimento finale, da seguire in apnea). Sarebbe stato inutile pretendere molto di più. Nispel, di suo, ci mette un esplicito omaggio a The Blair Witch Project (epilogo-prologo più il nome dell’assomoir del pre-finale), qualche lynchiano personaggio di contorno, vezzi stilistici che, come già accennato, stridono un po’ con l’asciutta efficacia di Hooper (ma in un compitino così diligentemente eseguito si soprassiede volentieri su movimenti di macchina attraverso crani sfondati e su luci accecanti che filtrano in qualunque fessura scenografica), e un più esplicito ancoraggio alla presunta “realtà”. Si ricorderà, infatti, che la vicenda alla base del TCM è sempre stata spacciata come vera, cronologicamente collocata nell’Agosto del 1973, il che è ampiamente (e ironicamente?) ribadito in questo remake ma semplicemente falso (sta forse qui il senso dell’insistito rimando a The Blair Witch Project?). Lo stesso Hooper ha infatti dichiarato che la sua ver(itier)a fonte di ispirazione furono le gesta di Ed Gein*, serial killer attivo nel Wisconsin degli anni ’50, che date le sue peculiarità ben si è prestato a più o meno fedeli “trasposizioni” cinematografiche; tre su tutte (oltre al misconosciuto film del 2001 a lui direttamente dedicato, Ed Gein, di tale Cuck Parello): il Norman Bates di Psycho (per il rapporto morboso con la madre), Hannibal Lecter e Buffalo Bill da Il silenzio degli innocenti (il cannibalismo e la sartoria epidermica) e ovviamente il nostro Leatherface (un simpatico mix delle precedenti caratteristiche unito al collezionismo e la composizione di souvenir biologici asportati dalle vittime coi quali Eddie ornava e arredava la propria fattoria, del tutto simile a quella “ammirata” in TTCM).

* per chi volesse qualche informazione in più su Gein, ecco alcuni link interessanti:

http://www.crimelibrary.com/gein/geinmain.htm
http://www.houseofhorrors.com/gein.htm
http://www.fortunecity.com/roswell/streiber/273/gein_cf.htm
http://www.carpenoctem.tv/killers/gein.html

Questo rifacimento dell’ammorbante capolavoro del “new horror anni settanta” di Tobe Hooper (che co-produce, mentre il direttore della fotografia è sempre lo stesso, Daniel Pearl) possiede una messinscena raffinata ed efficace stile La Casa dei 1000 Corpi di Rob Zombie ma manca di personalità e finisce con il mettere in scena l’ennesimo slasher-movie, riducendo il tutto a una caccia fra gatto e topo, eliminando molti elementi disturbanti dell’originale. Se non altro lo sceneggiatore esordiente Scott Kasar opera molte variazioni sul racconto originale, a volte gustose altre meno: innanzitutto, i ragazzi non sono solo carne da macello. Un punto a favore. Ma inietta una sospetta vena di conservatorismo da buona famiglia: la sexy (Nispel ne approfitta) Jessica Biel è una bacchettona (contraria alle canne, alla disinvoltura sessuale, all’immaturità del proprio fidanzato), vuole che tutti facciano la cosa giusta e alla fine mette tutti nei guai. Ed è l’unica a cavarsela, con una parte finale da girl-power abbastanza artificiosa. Punto a sfavore. Hooper non dava scampo allo spettatore, Nispel (tedesco esordiente che proviene dai video musicali) e Kasar fanno gli edificanti e trovano un finale di vendetta catartico. La messinscena di Hooper era sempre agghiacciante e claustrofobica, questa gioca più su di una tensione ben orchestrata, sul décor di scenografie macabre, lesinando anche sul gore (le macellazioni della motosega sono spesso off) per evitare il VM18 dell’originale. Quello di Hooper era un capolavoro malsano perché giocava sottilmente sul filo del grottesco, facendo della cittadina senza scampo un microcosmo sociale. Quello di Nispel è un discreto film di genere dove si abbandona la famiglia di Leatherface a se stessa (grave errore: non si menziona nemmeno il cannibalismo) preferendogli l’uno vs. uno fra la Bella e la Bestia. Prima produzione horror del regista Michael Bay, che si specializzerà nella rilettura dei classici anni settanta, riportando il genere su territori più adulti.