Drammatico

NOME DI DONNA

TRAMA

Nina Martini (Cristiana Capotondi) trova lavoro in una rinomata residenza per anziani in un paesino lombardo. Subisce avances sessuali dal dirigente (Valerio Binasco) e scopre che non è la prima volta che accade. Decide di portare la questione fino in fondo, in tribunale.

RECENSIONI

«Recitare nudi è bellissimo, non ti devi preoccupare più di niente: tutti a guardare quella cosa lì. E nessuno sta più attento a quello che dici.» Così Ines (Adriana Asti), anziana e eccentrica ospite del Baratta, residenza per anziani facoltosi in un paesino lombardo, ci ricorda che la donna, ben prima che un nome, è un corpo. E, potremmo aggiungere, è da sempre un corpo politico.
In piena era #metoo, Marco Tullio Giordana mette in scena un caso di molestie, un caso piuttosto lineare: delitto-denuncia-condanna (?) –il punto interrogativo è puramente antispoliler-, parabola dell’abuso (fisico e di potere), della sua capillarità, della tendenza all’omertà e della necessità di parlare e denunciare, della sua propagazione potenzialmente infinita (in un finale simbolicamente circolare).
Nina (Cristiana Capotondi) ha cresciuto una bimba da sola, ha perso il lavoro, ha un compagno che preferirebbe lei non lavorasse, ma che le sta accanto in ogni scelta; si muove in un ambiente imprecisato, insieme contemporaneo e fuori dal tempo, ha un ciuffo di capelli verdeblu, alla moda tuttavia discreto, ma deve togliere lo smalto per conferire alla sua figura professionale una rassicurante neutralità, come si conviene al rinomato Baratta: cenni di vulnerabilità e manipolabilità che preparano il terreno alle molestie che non tarderanno ad arrivare.

Quella di Nina è una figura giovane, modesta e a tratti mesta, seria, disposta al sacrificio, con una vita sessuale messa in scena a mitigarne l’austerità, ed è anche una madre amorevole e attenta: è, in sostanza, una figura proba, con tribolazioni passate, ma senza moralismi, che si presta a portare l’ingiustizia al massimo grado, nel momento in cui viene molestata, sottraendosi ad ogni possibile “essersela cercata” che è sempre il leitmotiv in agguato della questione.Ecco, si potrebbe riconoscere a questo film il merito di affrontare un tema attuale svolgendo così un compito “sociale”, se non fosse per il suo calcolo millimetrico, per la sua studiatezza dottrinaria che non a caso lo fa uscire in sala puntuale per l’8 marzo. Costellato di goffaggini, infarciture drammatiche e cliché (dalle sindacaliste motivate ma con le mani legate, alla figlia traumatizzata del “mostro”, all’avvocatessa molto “essa” simbolo della donna contro la donna, alle vittime silenziose che mentono, omettono o bullizzano, alla giornalista insicura, passando per un movimento di macchina comico (?) –volontario?- sulla chiamata in arrivo di Colin Firth sul monitor, per un improbabile blitz notturno nell’edificio, nonché per un «da che parte sta il tuo Dio» rivolto al prete di campagna che, insieme al prete corrotto e perbenista di Bebo Storti ci assicura una certa aria di DC che dà da pensare), questo film marcia contro il cattivo designato, alla cui caratterizzazione non mancano un «che troia» e alcune risate diaboliche, con un esercito di donne deboli, da cui ci salva l’energia recitativa di Michela Cescon-avvocato Della Rovere, con il suo tocco declamatorio, ma in cui perfino la brava Capotondi-Nina, protagonista della vicenda giudiziaria, ingaggia una lotta da copione. Ed è proprio contro questa predeterminata debolezza, contro la riduzione della donna a corpo, contro il perpetuo ruolo di vittima che si esprimeva Catherine Deneuve, nella famosa lettera su Le Monde del 9 gennaio 2018, per quanto opinabile questa potesse risultare.

Ecco perché, anche volendo riconoscere il merito della trattazione tempestiva di un argomento attuale, questa stessa immediatezza, unita alla confezione semplicistica che cerca la provocazione emotiva spicciola, altro non produce che una storia da piccolo schermo. E invece ci vuole di più. Sia per le donne che per il cinema.
Sempre l’Adriana Asti di cui in apertura, rievocando le innumerevoli repliche in cui impersonava Ofelia dice «non sai quante volte sono morta annegata». Ed è forse l’affermazione femminile più intensa del film. Non è questa la sede per parlarne oltre, ma è necessario uno spirito diverso, che vada oltre l’accusa, il dito puntato, la soddisfazione dello smascheramento del villain, il rischio della caccia alle streghe, la banalizzazione di un ruolo di donna, oltre che di un nome, che è molto più di tutto questo. #metoo or not #metoo non è la questione.