TRAMA
Noé è il prescelto da Dio per intraprendere una missione epocale di salvezza, prima che un diluvio apocalittico distrugga il mondo… (dal pressbook)
RECENSIONI
Già dai tempi di Requiem for a Dream Darren Aronofsky si era palesato una specie di Cecil B. DeMille dei poveri. Era dunque inevitabile che prima o poi approdasse a un soggetto cosí fragorosamente biblico e massimalista come quello di Noah.
Aronofsky, si sa, non ci va mai giù leggero. Se c'è da alludere all'inizio del diluvio universale, pensa bene di fare una soggettiva in picchiata della prima goccia dal cielo fino alla fronte del longevo protagonista (replicando cosí un'analoga inquadratura della Passione di Mel Gibson, il quale sarebbe stato, invero, il perfetto regista/interprete di una storia del genere). Basta questo per liquidare l'autore di The Fountain come irredimibilmente imprigionato nei propri eccessi kitsch? All'occorrenza, sí - ma è anche facile riconoscere come questi eccessi risultino in fondo quasi sempre giustificati, vuoi dall'impianto parossisticamente melodrammatico (Black Swan), vuoi come calibrato contrappunto di uno stile programmaticamente sotto le righe (The Wrestler), e cosí via.
Anche in un progetto intrinsecamente non appassionante come questo Noah, le spacconate di Aronofsky alla fin fine hanno un perché. Trattasi, piaccia o no, di una sorta di chiosa a margine di una delle estetiche, piaccia o no, più influenti (e ingombranti) della Hollywood contemporanea: quella di Michael Bay. C'è poco da fare: i Guardiani che aiutano Noé a costruire l'arca, sono Transformers sotto mentite spoglie, in tutto e per tutto. Ma già Armageddon, con una certa evidenza, era una riscrittura anagrammatica dei mitologemi alla base della narrazione dell'arca e del diluvio universale.
Ecco: il Noé di Aronofsky è un Bruce Willis del film di Bay che anziché sacrificarsi affinché la figlia si allinei alla patrilinearità, rimane a terra rompendo le scatole alla Coppia che rigenererà il pianeta. Più in generale, e in maniera non dissimile da quanto un altro abituato a sentirsi definire il Cecil B. DeMille dei poveri (Spielberg) fece qualche anno fa (Super8), Noah si propone di inceppare la troppo oliata palingenesi postumana di Bay facendo rientrare dalla finestra l'umano. Il dramma dell'antiumano Noé è quello di fallire il proprio compito di “braccio violento” di un Dio vendicativo, attuatore dello sterminio totale di una insalvabile umanità: accorgendosi di voler essere il portavoce di qualcosa che non ha voce, si scopre paradossalmente troppo umano (come già il nonno Matusalemme). Ecco dunque che dopo una lunga sezione in cui trionfano gli effetti speciali (enfatizzati con goffa generosità da Aronofsky quasi sempre con totali in movimento, come a sottolineare una sostanziale incapacità di scegliere), placatesi le perturbazioni il film diventa all'improvviso una specie di vertiginoso melodramma familiare in cui proliferano antagonismi tra i personaggi in tutte le combinazioni possibili, uno dopo l'altro (e non manca un'interminabile sfuriata isterica della Connelly), con un ritmo allucinato molto vicino, se non al ridicolo involontario, a una soap opera non priva di robuste venature parodiche. Come un virus, l'umano si infiltra tra le pieghe della purificazione totale anti-umana. E se “umano” vuole anche dire “figurativo”, l'erotizzazione fuori controllo che Bay riserva alle proprie macchine cede qui il passo alla ricomposizione figurativa ostentata da Aronofsky a furia di tramonti e di altre trovate visuali compostamente naif (come una stucchevole sequenza di creazione del mondo e degli esseri viventi a passo uno). Ed è giusto cosí: lasciata alle spalle la possibilità dell'annientamento totale, della divina e Sublime (perché fuori da ogni umana misura) apocalisse assoluta, rimane ancora l'inadeguatezza endemica dell'umano - e dunque il Ridicolo, il kitsch.
Tra l'Uomo e la Fede, Noé sceglie la seconda, senza alcuna esitazione. E la Fede, per lui, è tuttuno con le visioni di cui è affetto; Fede, per lui, significa abitare le immagini oniriche del passato dell'umanità e del suo futuro, che lo visitano incessantemente e inseriscono lui stesso nella sequenza che le articola, e che può dipartirsi solo da un Nulla a cui fare periodicamente ritorno, anche a costo della più impietosa delle catastrofi. Non poteva però sapere, al momento della scelta, che una di quelle immagini, il serpente dell'Eden, raffigura il suo stesso destino. La patrilinearità, virus che si trasmette di generazione in generazione, non teme catastrofi né apocalissi globali: anche quando finge di troncarsi e di interrompersi, perde solo la propria pelle, e si rigenera.
L’Albero della Vita secondo atto: questa volta, però, Aronofsky ottiene i fondi sperati (130 milioni di dollari) e gira il kolossal voluto, previa, alla pari del film citato, uscita di albo illustrato (in quattro parti). Il progetto, a detta dell’autore risalente ad una poesia sulla pace con cui vinse, a tredici anni, un premio che lo portò alle Nazioni Unite, è arrischiato e coraggioso nel proporre una rilettura della pagina biblica, creativa ma senza modifiche del “senso”. Scommessa vinta: da un lato inventa personaggi e situazioni che articolano il racconto orale, fornendo anche spiegazioni più verosimili (su tutte: come Noè ha costruito l’arca in poco tempo), con un occhio di riguardo per la spettacolarità (Aronofsky ha citato Tolkien come modello: l’assedio all’arca è figlio del Signore degli Anelli), dall’altro rimpolpa il testo confondendo un Noè ammantato di ombre e crucci con Abramo e con il tema forte, nichilista ed intrigante, di un protagonista convinto che l’umanità non meriti di essere salvata. L’autore ambisce a parlare del presente, lanciando un monito all’umanità figlia di Caino che, ancora, ha deturpato l’Eden: vacilla in bilico fra semplicismo e foga di messaggio ambientalista trasparente, fino al pistolotto da film hollywoodiano epico. Preso come fantasy, il racconto sorprende in quanto eccitante, movimentato, intrigante e con quesiti filosofici non superficiali. Come tappa personale/autoriale è un’occasione mancata, non tanto a livello figurativo (i mediocri effetti speciali della Creazione sembrano voluti dal un gusto che tende al kitsch poco elaborato; gli animali sono digitali per coerenza ecologica), quanto per la semina che poco raccoglie attraverso scene madri convenzionali. L’idea della circolarità del percorso umano, per cui un evento catastrofico riporterà al nulla per ricominciare, è pregnante e rende l’opera, girata in Islanda, più scomoda di quanto appaia.