TRAMA
Tre funzionari sovietici, a Parigi per vendere dei gioielli, sono “convertiti” ai piaceri del capitalismo da un aristocratico, amico intimo dell’ex proprietaria dei monili. Per ricondurli all’ordine arriva dalla Russia l’inflessibile Nina Ivanovna Yakusciova…
RECENSIONI
Il fascino discreto della leggerezza finisce per trasformare la visita dell’ispettrice (del comportamento altrui, ma anche dei luoghi e persino dei bulloni) in una soave analisi dell’eterna guerra civile fra il tempo e l’istante. Tutte le contrapposizioni create nel corso del film (comunismo/consumismo, pubblico/privato, ingegneria/romanticismo) sono riconducibili al contrasto (all’apparenza) irresolubile eterno/effimero, alla base dell’idea stessa di cinema (immagine che, attraverso una ripetizione a un tempo fissa e mutevole, tende all’immortalità). In una stazione parigina appare (inappuntabile e immobile, quasi fosse lì da sempre) una figura insostenibilmente alta e glaciale, distrattamente altera, inviata in territorio ostile per riportare la ragione (l’unica possibile, a quanto risulta) nella vita di tre (ex?) colleghi “traviati”. Ma basta una risata, non preparata e assolutamente non sollecitata, e la gioia della serendipità invade la vita di Ninotchka, portandola non a convertirsi alla spensieratezza, ma a venire a patti con una parte di sé stessa che non conosceva (o aveva deciso di ignorare). Da questo punto in poi, l’amore può arrivare e svanire, i sogni frantumarsi contro la cortina della quotidianità, l’uomo (la donna) è comunque in salvo: è solo questione di tempo, l’instabile dea cieca e stempiata tornerà a regalare un momento di illusione, di verità. La (ir)ridente incostanza come dovere morale (e, anche più importante, come piacere) sommo è la cifra di una commedia impagabile, mai stucchevole, perché velata di una malinconia ineffabile, un rimpianto sussurrato per un’Europa che non esiste più (la voce off fornisce un segnale preciso) e forse non è mai esistita, e, a posteriori, per l’unica divina capace di sopravvivere all’avvento del sonoro (qui al penultimo film, e all’ultimo capolavoro) e per un cinema risplendente e onirico, privo di degni epigoni.
Le battute (e le immagini, prima fra tutte quella di Ninotchka dolcemente ubriaca e sontuosamente ingioiellata) si succedono deflagranti come tappi di champagne in una cornice che (s)maschera con lo splendore la propria simulazione; lo schermo, appena velato dall’ebbrezza della precarietà, è uno specchio opaco nel quale risplendono gli ultimi fuochi di una stagione irripetibile e, in trasparenza, si intravede un futuro che è puro fantasma, ricordo di un istante immortale.
