TRAMA
Nella primavera del 1917, tre anni dopo l’inizio della prima guerra mondiale, il diciassettenne Paul Bäumer si arruola nell’esercito tedesco insieme ai suoi compagni di scuola, Albert Kropp, Franz Müller e Ludwig Behm.
Vincitore di quattro premi Oscar: film internazionale (Germania), fotografia, scenografia, musiche.
RECENSIONI
«[…] siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.» (E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, 1989, tr. S. Jacini)
La storia del cinema è disseminata di grandi film bellici contro la guerra, ma ce n’è uno, peraltro abbastanza recente, che di solito non viene citato tra i capisaldi del genere. Anzi, può persino capitare che quel film specifico – sto parlando di American Sniper, di Clint Eastwood – sia annoverato tra i lungometraggi ispirati da valori di matrice nazionalistica e patriottica, dunque considerato, da un punto di vista ideologico, perlomeno ambiguo. Che davvero lo sia è tutto da discutere se, come credo, il regista fu in grado di cogliere, attraverso la costruzione di un macabro campo di battaglia-videogioco, dove i nemici non sono altro che fantocci da centrare e abbattere, il senso profondo del processo di deindividuazione, tale e quale a quello che Philip Zimbardo provò a dimostrare, nel 1971, con il famoso esperimento di Stanford. Zimbardo, a dirla tutta, l’esperimento dovette addirittura sospenderlo a causa della brutalità dimostrata da alcuni partecipanti assegnati al gruppo “guardie” (i ventiquattro ragazzi, tutti maschi, scelti dal team del ricercatore, fra quelli che avevano dimostrato maggiore equilibrio e minori tendenze aggressive, erano stati suddivisi in guardie e detenuti), in particolare da una di esse, soprannominata, non a caso, John Wayne.
La condizione di eteronomia, morale e pragmatica, in cui versa il pedone, ravvisabile tanto nello studio dell’università di Stanford quanto nel lavoro di Eastwood, è anche alla base del classico di Remarque e di questa sua trasposizione, diretta da Edward Berger, con una prospettiva già contrassegnata dalla forte marcatura teorica, che deriva proprio dall’impianto quasi esistenziale dell’opera letteraria: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole! Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me.» (Op. cit.)
Il patto poi è addirittura già esplicitato nelle parole di un generale, quando arringa le nuove reclute, eccitate dalla propaganda, ma ancora un po’ incerte sul destino che gli si prefigura (lo vedranno, letteralmente, sulla loro pelle, molto presto): non contano i singoli pezzi, ma l’assetto globale della scacchiera.
La forza (che sta essenzialmente nella limpidezza del messaggio) e i limiti di Niente di nuovo sul fronte occidentale, premiato nella più recente edizione degli Oscar con la statuetta per il miglior film straniero, mi sembrano poter essere racchiusi proprio entro i confini che, dal verbo “esplicitare”, portano al termine “complessità”. Ma è in parte una questione di linguaggio ed è probabile che sia soprattutto da quel lato che si debba azzardare un discorso d’analisi. Perché se la sala viene considerata, persino da qualche cinefilo che vuole sentirsi più à la page, roba d’antiquariato, da soffitta polverosa, dove ci si sforza di conservare tra il ciarpame – ma solo per nostalgia dei bei tempi che furono, eh – il proiettore del caro prozio, allora bisogna poter riflettere su un lavoro come questo, rispetto al mezzo per il quale è stato pensato e poi prodotto (al di là di un intuibile passaggio tardivo al cinema, come coda lunga degli Academy Awards).
Vero è che ci sono stati registi, i fratelli Coen, Martin Scorsese, con il suo magnifico The Irishman, lo stesso Lynch, che hanno saputo, o talvolta voluto, usare il mezzo telematico-televisivo come apparato potenziatore di proprie istanze. Si tratta però di autori a tutti gli effetti, con una poetica talmente connotata da poter prescindere – più o meno – dal medium o meglio, da poter dirigere il gioco senza mai lasciarsi sopraffare. Non mi pare ancora il caso di Berger, buon regista che dal mezzo è stato, dal mio punto di vista, fin troppo fagocitato, se non nelle intenzioni, senza alcun dubbio nobili, almeno negli esiti complessivi.
La sala, che è un luogo, ma più di tutto rappresenta (ancora) un rito e l’idea attraverso la quale si riesce a costruire un senso possibile del linguaggio cinematografico, riesce a espandere i propri confini oltre il quadro dello schermo: significante, significato e referente restano in perfetto equilibrio nel triangolo semiotico. Al contrario, ci sono casi in cui il prodotto televisivo appare come compresso entro i suoi stessi margini: dalla tv al display del pc, fino al parossismo della micronizzazione visiva del quadrante di un telefonino-orologio. Ogni elemento, invece di aprirsi alla complessità dell’esistente, quanto mai necessaria oggigiorno, di farsi contaminare da significati dell’altrove-sguardo, si richiude su sé stesso e necessita del dato epidittico per provare a funzionare meglio, per gestire – o tentare di – la fruizione distratta e multitasking che la piattaforma permette (e come potrebbe non farlo?) e incoraggia, nella sua onnipresenza quotidiana; la complessità non viene scomposta in elementi più semplici, ma altrettanto rilevanti e vividi, come dovrebbe essere, lasciando allo spettatore parte del grato onere. Viene piuttosto negata in favore di una realtà che è già stata predigerita, privata insomma di ogni sua dimensione chiaroscurale: privata del nostro ruolo di guardanti attivi. Allora l’etichetta strappata dalla divisa, appartenuta prima a qualche altro giovane, morto sul campo di battaglia, deve essere visivamente amplificata – spiegata – in un mucchio di etichette tutte diverse e tutte uguali: nomi propri, date di nascita lette in fila, come in un verbale, solo questo. E ancora i cingolati francesi, che assaltano le trincee, giungono quali astronavi spaziali in un film di fantascienza, oppure mostri senza un’anima. Ma chi sono i veri mostri? Mentre i soldati mangiano avanzi infestati dai topi e vengono trucidati nel formicaio, chi comanda sorseggia una bevanda calda, azione sottolineata dal gusto esornativo del dettaglio e da un controcampo con giudizio preconfezionato annesso.
Sia ribadito: riecheggia forte e chiara, in questo lavoro e negli occhi straniti – perduti, come quelli di un’intera generazione mandata al macello – del suo protagonista, la massima di Padre Ernesto Balducci, traslata dal più noto aforisma latino: se vuoi la pace, prepara la pace. Eppure non sembra bastare, per certi versi pare anzi una consolazione un po’ sterile, un po’ facile, poiché sottratta a un’adeguata struttura, eticamente e cinematograficamente (se si può dire), problematica.
Che in un’epoca come la nostra, ancora funestata da guerre, alle quali nessuno pare avere interesse reale a mettere fine, un film come Niente di nuovo sul fronte occidentale, che è, lo ribadisco ancora una volta, un lavoro dal profondo substrato pacifista, possa ambire al più mediatico dei premi, è davvero un risultato prevedibile. Non è invece beffardo, come potrebbe suggerire la scarsa non bellicosità, se non altro ideale, del Paese in cui quel dato premio si svolge. Nella fotografia ghiacciata a la Lubezki, i combattimenti vengono coreografati, costruendo simmetrie goniometriche, il fango non riesce a non sembrare trucco (né le armature, ancora indossate, una sorta di panoplia a priori) e gli uomini, intossicati dai gas e accatastati in un capannone, paiono simili a un’installazione contemporanea da museo, qualcosa che, allo stesso tempo, non ci riguarda e non ci mette in allarme, tanto è simbolicamente inerte, concretamente perfetta.
Se Oliver Stone, nella sua spasmodica ricerca di verosimiglianza (del resto lui in Vietnam c’era stato davvero), rischiava con Platoon di spettacolarizzare la violenza e quindi la guerra, Niente di nuovo sul fronte occidentale spettacolarizza, in un’estetica poderosa, la necessità della pace, il suo arrivare sempre troppo tardi (il leit motiv della raccolta delle piastrine). Non fa troppo più di questo, mi pare.
Nella Hollywood ripulita – che tenta in ogni modo di ripulirsi la coscienza, per meglio dire – degli ultimi anni, questo compitino splendidamente eseguito (perché sul comparto tecnico, nulla si può eccepire), ma che morde poco, che poco ci chiama – oggi, non ieri – a chiedere con insistenza un cessate il fuoco, non poteva che piacere tantissimo. Perché alla fine la questione si può sintetizzare con le parole di Gino Strada: non serve/basta essere pacifisti (chi non lo è o può dichiarare a cuor leggero di non esserlo?), occorre essere contro la guerra. Scevro di una prospettiva politica, Niente di nuovo sul fronte occidentale può esserlo solo in superficie, come proclama, non come obiettivo concreto e improcrastinabile.