- 67512
TRAMA
Mentre aspettano l’assegnazione di un alloggio dallo Stato, due giovani coniugi, con figlia a carico, sono costretti a convivere insieme ai genitori di lui. Seguono incomprensioni e umiliazioni, fino alla crisi definitiva._x000D_
RECENSIONI
È il nido familiare, a venir corrotto da qualcuno, o sono gli uccelli, ad esser nati morti? (B. Tarr, 1979)
Commedie umane, così Tarr descrive i suoi stessi film. Eppure, per quanto s'ostini sempre a flirtare col tragico, l'ironia del maestro magiaro è elemento puntualmente trascurato da chi tratta la sua opera. A provarne la centralità, basterebbe il sarcasmo carbonizzato del suo debutto, brutale confutazione di un motivo condiviso - l'utopia del nido familiare, qui ridotta a chimera, prigione, cappio. Più che un focolare, nel docudrama con cui Tarr esordisce, appena ventiduenne, l'alveo domestico è asfittica cella, ragnatela d'ipocrisie, loculo infernale dove tre generazioni di una famiglia (soprav)vivono stipate, mentre la tv pompa propaganda e la convivenza forzata porta, com'è inevitabile, all'implosione di tensioni e frustrazioni. Nell'affollata casa non si respira e la bambina finisce per ammalarsi ai polmoni, di un male ciclico, pare, come ciclica è la claustrofobica e impotente ronde orchestrata da Tarr, grumo di situazioni incancrenite nella ricaduta e nell'abitudine (è la tagliola di Beckett, quella che riporta il cane al suo vomito; così il marito della protagonista, ritratto a dar di stomaco nell'unico giorno di svago trascorso insieme alla moglie). Nemmeno la mdp concede respiro, addossata ai volti dei personaggi, stretti in primissimi piani da protrarre fino a durate abnormi, scossi da zoom precari, stacchi inconsulti e altri fremiti da macchina a mano. Gli avvolgenti pianisequenza con cui Tarr scolpirà i capolavori della maturità sono di là da venire, ma la materia prima del suo cinema, e non solo il compulsivo ricorso al long take (lente indispensabile per esfoliare il reale), è già tutta qui, in questo dramma abbigliato da documentario, dove fanno presto a germogliare le prime ossessioni: la decisa predilezione per ambiente e personaggi (a discapito d'una storia sentita come finzione scrittoria, da esorcizzare in libero accumulo d'interstizi, rime e tempi morti), la sofferta empatia per umili ed emarginati, non priva di disperata ironia, e l'incessante riflessione sulla condizione umana, formulata con intensità pressoché insostenibile.
Girato in soli quattro giorni, viene considerato, insieme ai due film successivi, l'emblema del cassavetismo giovanile di Tarr (trattasi d'affinità inconsapevole: solo anni dopo scoprirà l'opera del collega americano), tanto per il grezzo scandaglio cineveritiero (con suono in presa diretta) che per l'improvvisata direzione d'attori non professionisti (con conseguente, spontanea, cacofonia dialogica). Proprio i dialoghi, insieme torrenziali e cantilenanti, sono acidi e nevrotici, non meno soffocanti del disegno visivo che innerva l'opera, come a spogliare ulteriormente di tepore e stabilità l'idilliaco luogo comune ostentato dal titolo. Resta, comunque, opera respingente, perché porta a immedesimarsi a forza con i personaggi, accorpando, ruvida e incompromissoria, l'osservazione sociologica ai sommovimenti psicologici, inchiodando le proprie figure a interviste e soliloqui tanto estenuanti quanto opachi, che tutto contemplano e nulla conchiudono. Perché le parole dei vinti, scissi l'un dall'altro da primi piani non comunicanti, sono, per Tarr, le ultime tracce d'umanità residua (benché agonizzante). La coabitazione forzata rende tale spazio totalitario, prossimo a sorprusi e abusi di potere, sineddoche di una nazione, l'Ungheria sovietica, nutrita da un'improvvisa crescita demografica, ma ancor più atomizzata, dall'altra, dallo stigma sociale e dal controllo di Stato, ché il nuovo affollamento implica più persecutori, spie e schiavi. Sembra un paradosso, ma più il Paese si popola (comprimendosi e perdendo così il diritto al segreto di cui parlava Derrida), più si è sorvegliati e intimamente soli, magari tacciati d'infedeltà (al marito come al Partito) ed esiliati (dalla famiglia come dallo Stato). Così succede alla protagonista di Nido familiare, cacciata di casa con calunnie di cui non s'appurerà mai l'effettiva fondatezza.
Il particolare rimane orfano del generale, il dettaglio si staglia da uno sfondo relegato al fuoricampo, ma è sufficiente un microcosmo a brandelli a dire di un'umanità alla deriva, ed è qui che Tarr, senza lesinare simbolismi grossolani (come la scena in cui viene malamente ricomposta, colla alla mano, la bandiera ungherese spezzata in due; per non dire dell'approssimazione con cui i personaggi maschili vengono ridotti a inverosimili Moloch, padre in primis), ascrive la totalità delle colpe individuali allo scenario nazionale, in una denuncia cristallina - a tratti elementare, ma di logica incontrovertibile - della demonizzazione di poveri e (presunti) dissidenti. È proprio a partire dalla politica degli alloggi, affetta da burocratismo e corruzione, che nel privato nascono, per diretta filiazione, ricatti affettivi ed economici, disfunzioni familiari (adulteri e inadempienze genitoriali) e violenze assortite (non solo psicologiche: la scena dello stupro, d'atroce indifferenza, è subito de-drammatizzata e rimarginata dall'ordinario flusso di eventi, ridimensionato così a sintomo diffuso), nonché piaghe sociali (l'alcoolismo del marito) e psicologiche (la depressione della moglie, le cui braccia e gambe «non smettono di tremare»). Anziché aiutare le famiglie, il piano alloggi le distrugge più in fretta (il pianto a due, icastico colpo di grazia, non è che l'atto conclusivo della separazione dei due coniugi). Per Tarr non c'è scampo dal nido infernale, checché ne dicano le spensierate canzonette udibili in sottofondo (Avremo una casa, una casa piena di amici...), grottesco contrappunto al dramma filmato. Non meno cronica e assurda è la sequenza kafkiana in cui la protagonista richiede, per l'ennesima volta, un alloggio che gli verrà negato: secondo l'impiegato potrà abitare nell'appartamento promesso solo anni o addirittura decenni più tardi. Intanto, la donna continua a attendere e a morire. Aspetta, nella prima delle fallimentari attese che costelleranno il cinema di Tarr, l'esaudirsi e l'esaurirsi di un'illusione già decomposta, ma sempre riproposta, ripetuta, rimandata ad infinitum.
