TRAMA
La relazione creativa tra i musicisti australiani Nick Cave e Warren Ellis, le prime esibizioni con canzoni dei loro ultimi due album in studio, Ghosteen e Carnage , con intermezzi che esplorano il processo di scrittura.
RECENSIONI
C’è un brano di Nick Cave di cui si è parlato troppo poco. E lo si è fatto perché, per una volta, forse, a ragion veduta, la vita dell’autore ha divorato l’autore stesso, portando in parte a sospendere i giudizi sul singolo album o sul singolo pezzo, a favore di una lettura che vedrebbe come inscindibile le sue ultime produzioni e gli anni più recenti della sua vita. Esercizio stucchevole, quello di interpretare le opere alla luce della biografia, ma quando un artista così apertamente cattolico, relitto novecentesco di un rock spirituale da sempre legato nei suoi testi a manifestazioni magiche della morte, perde due figli nella maniera più tragica possibile (per incidente quella di Arthur, quindicenne, e per cause non ancora chiarite quella di Jethro, trentenne) e, soprattutto, quando questi eventi drammatici sembrano il compimento differito nel tempo di un dolore cantato per un’intera discografia, allora è possibile che quegli eventi facciano da catalizzatori di un’intera poetica. Quel brano è un’elegia di rara bellezza della durata di 14 minuti e 12 secondi, tra i componimenti più sperimentali e oscuri di Nick Cave e Warren Ellis (violinista, amico, icona), è contenuto nell’album Ghosteen (ragazzo-fantasma, appunto) e si chiama Hollywood. Nel brano, che si dipana lentamente su un’ossessiva melodia di piano e un basso distorto, dopo aver cantato di un “ragazzino con la faccia da pipistrello” che scompare nella luce dei fari, l’autore racconta con un falsetto che sembra provenire dall’oltretomba (la voce del Bowie di Blackstar o di Ian Curtis,) una leggenda buddhista, la storia di Kisa, che altro non è che una parabola sull’elaborazione del lutto e sulla presa di consapevolezza della comunanza umana nella sofferenza e nella perdita come unico palliativo alla morte
“Kisa aveva un bambino, ma il bambino è morto.
Va dagli abitanti del villaggio, dice: “Il mio bambino sta male!”.
Gli abitanti del villaggio scuotono la testa e le dicono
“Meglio seppellire il tuo bambino nella foresta in fretta”
È un lungo cammino per trovare la pace della mente, la pace della mente
È un lungo cammino per trovare la pace della mente, la pace della mente
Kisa andò sulla montagna e chiese al Buddha
“Il mio bambino sta male!” Buddha rispose: “Non piangere”.
“Vai in ogni casa e raccogli un seme di senape.
Ma solo da una casa dove non è morto nessuno”.
Kisa andò in ogni casa del villaggio
“Il mio bambina sta peggiorando”, la povera Kisa piangeva
Ma Kisa non ha mai raccolto un seme di senape
Perché in ogni casa, qualcuno era morto.
Kisa si sedette nella piazza del vecchio villaggio
Abbracciò il suo bambino, e pianse e pianse.
Disse che tutti perdono sempre qualcuno
Poi andò nella foresta e seppellì il suo bambino”.
L’esecuzione live del brano, immortalata tra le luci stroboscopiche da una macchina da presa che sembra non volersi staccare mai dal volto dolente del cantante, si chiude esattamente a metà di This Much I Know to Be True, seconda collaborazione tra Cave e Andrew Dominik dopo il precedente One More Time With Feelings (che seguiva invece le registrazioni di Skeleton Tree), come fosse il fulcro dell’intero film. Hollywood, si sa, è un luogo sospeso, il paese dei balocchi, il posto dove i sogni e gli incubi possono prendere corpo, i morti possono tornare in vita, presentarsi sotto forma di fantasmi o assumere forme differenti (come nella title track Ghosteen, in cui l’artista canta di un spiritello che danza di fronte ai suoi occhi per poi andarsene sulla luna con l’aspetto di un orsetto) e la storia può prendere un nuovo corso (come succede alla Sharon Tate di Tarantino in C’era una volta a… Hollywood); Hollywood è però anche la città della mitologia divistica, degli umani seppelliti sotto le proprie stesse immagini, dei drammi mascherati dal glitter. E chi meglio di Andrew Dominik – lui che ha indagato con occhio c(l)inico la violenza dei media del Novecento sull’identità di Marilyn Monroe-Norma Jane nel bistrattato Blonde, e il processo di appiattimento e divinizzazione della figura di Jesse James in L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford facendosi accompagnare dal duo Cave-Ellis alla colonna sonora – per cercare l’uomo dietro l’artista, scoprendo infine che, in fondo, sono la stessa cosa? Il regista di Cogan – Killing Them Softly genera un limbo a due facce, un mondo sospeso in cui vita e arte si intrecciano senza soluzione di continuità. Da un lato mette in scena le performance di alcuni tra i brani più memorabili (White Elephant, Spinning Song, Bright Horses) degli ultimi due album di Cave (il titolo è tratto da Balcony Man, ultimo brano di Carnage, l’album pandemico del 2021 a cui alla tragedia personale si aggiunge il dramma sociale, la carneficina del covid-19, qui esorcizzata come memento mori nella danza tribale di Hand of God, la mano di dio): i brani, tutti estremamente biografici, vengono tracciati in zone liminali che Dominik costruisce attorno a carrellate circolari mozze, come fossero GIF ossessive, movimenti di macchina che si interrompono bruscamente per riprendere la loro andatura dal punto in cui erano iniziati, permettendo ai coristi di apparire come fantasmi sullo sfondo grazie ai bruschi stacchi di montaggio. Così, il regista confonde lo sguardo e costruisce una vera e propria anti-geografia di Cave, fatta di apparizioni e vuoti, stasi e brusche accelerate drammatiche, uno vero e proprio spazio dell’anima. Dall’altro lato, nell’ora e cinquanta di film, il live si alterna a stralci di brevi interviste in cui il musicista mostra le stesse ossessioni e lo stesso sguardo abissale e profondamente umano, al contempo dentro e fuori dal mondo, dentro e fuori dal tempo, che emerge dalla sua opera, lasciando trasparire il Nick Cave che cerca un senso al dolore nelle piccole cose, casalingo e artigiano (il film si apre su una sequenza meravigliosa in cui l’artista spiega la sua passione per la ceramica e mostra in successione un ciclo da lui prodotto sulla vita del diavolo), il Nick Cave-artista-e-amico (si parla delle difficoltà nel produrre un album, del processo creativo costruito negli anni insieme a Ellis) e del Nick Cave-idolo-delle-folle, pastore e polo dialettico per i soli e gli sconfitti, per chiunque provi a contattarlo attraverso il sito The Red Hand Files, da lui creato per comunicare direttamente coi fan e attraverso il quale, trovandosi spesso a dover rispondere a domande riguardo al dolore e al suo significato, spiega egregiamente il ruolo che la sua figura di musicista, scrittore, attore e parafulmine della sofferenza ha assunto negli ultimi anni: “Queste domande sono estremamente commoventi, perché, sai, se ti succede qualcosa, la prima cosa che ti viene in mente non è certo quella di scriverla a… sono domande disperate da persone che non hanno nessuno a cui rivolgerle. Stanno solo lanciando queste domande… nel vuoto”.
