Criminale, Focus, Poliziesco, Recensione

NEMICO PUBBLICO (2009)

TRAMA

26 settembre 1933-22 luglio 1934: gli ultimi dieci mesi di vista di John Herbert Dillinger, nemico pubblico n.1 braccato da Melvin Purvis del Bureau of Investigation di John Edgar Hoover.

RECENSIONI

Abnorme realismo

«Dillinger non è 'uscito' di prigione, è esploso sul paesaggio. Ed era intenzionato ad avere tutto e a prenderselo subito» (Michael Mann)

Ancora una volta un film mannianamente abnorme: per tessitura narrativa (dozzine di personaggi e vicende parallele), durata (140'), formato (cinemascope) e arsenale di apparecchi impiegati (Arriflex 235, Arriflex 435, Sony CineAlta F23, Sony HDC-F950, Sony PMW-EX1). Esattamente tre anni fa, a proposito di Miami Vice, sentenziavo con l'abituale magniloquenza: 'Il cinema di Michael Mann ormai risiede stabilmente nella grandiosità della forma, nell'iperbole visiva, nell'estremismo dello stile. Ogni suo film si spinge sempre più avanti nella ricerca di un realismo così radicale da trasfigurare in febbrile iperrealismo, apoteosi del dettaglio saturo di senso e dell'energia dardeggiante degli sguardi. Ebbene, oggi ribadisco il concetto, se possibile con maggior enfasi, e aggiungo che il realismo manniano non è un assioma astratto e intoccabile, ma un postulato operativo flessibile che si presta a essere arrangiato in diversi modi, a patto che la distorsione non si riduca a banale alterazione sensazionalistica. La verità dei singoli fatti può anche essere manipolata in chiave drammatica, insomma, poiché a condurre le danze non è il mero scrupolo realistico, ma il progetto estetico nel suo complesso: 'Quello che cerco di fare in Nemico pubblico è evitare di far apparire tutto velato da un convenzionale filtro nostalgico, evitare di far sembrare vecchie le cose. Se sei vivo martedì mattina 17 marzo 1934 le cose sono immediate; ti stanno davanti agli occhi. È una giornata fredda e piovosa, è Chicago ed è a colori. Sembra molto viva, e non è cambiato molto. Questo mi ha portato a immaginare di essere proprio lì e proprio in quel tempo' (Michael Mann, dal pressbook).

Autenticazione digitale

A differenza del Lynch di INLAND EMPIRE, del Coppola di Un'altra giovinezza e del von Trier di Antichrist - per i quali la videocamera costituisce lo strumento privilegiato per condensare fantasmi, viaggi e conflitti ai limiti dell'indicibile - il Michael Mann di Nemico pubblico, in combutta col direttore della fotografia Dante Spinotti, non ricorre al digitale per incrementare il coefficiente di soggettività della pellicola, ma lo utilizza per acuire l'impressione di realtà, anche se ciò comporta metodi anomali e distorsioni ottiche: 'C'è una combinazione di riprese macchina a mano, molto vicine alle facce degli attori, tutte realizzate con obiettivi lunghi. Ma nello stesso tempo, e contemporaneamente, abbiamo ripreso almeno una parte della scena. Questo serve a dare immediatezza e la sensazione di vedere tutto quello che succede in tempo reale' (Dante Spinotti, dal pressbook). Il digitale fagocita la pellicola: emblematica la sequenza in sala, dove il Newsreel in bianco e nero che mostra Hoover (Billy Crudup) decorare i junior G-Men viene riassorbito del film che stiamo vedendo. Il cinema subisce un'intrusione vivificante, assiste allo sviluppo di una rappresentazione che sembra rianimarlo, il digitale si scaglia contro la pellicola per squarciarne i limiti e iscrivervi uno sguardo senza zone d'ombra: 'Abbiamo sempre tenuto a mente il realismo estremo della situazione. Volevamo rappresentare, in modo aggressivo e vero, che cosa era quel tempo e cosa è la scena. Così abbiamo illuminato tutta la scena e raramente solo l'inquadratura' (Dante Spinotti). Dal momento che questa ricerca di autenticità contraddistingue da sempre l'opera di Mann (basti pensare a Strade violente, Heat o Insider), è pressoché pacifico osservare che la digitalizzazione del suo cinema si è compiuta tanto gradualmente quanto irreversibilmente: le singole occorrenze digitali di Alì (l'incipit con la corsa notturna di Will Smith) preludono all'alternanza digitale/pellicola di Collateral per sfociare infine nell'HD integrale di Miami Vice. Non si tratta di semplice aggiornamento tecnologico, ma di una vera e propria assolutizzazione delle forme dello sguardo, di radicale autenticazione del loro statuto veridittivo. Il cinema di Mann scassina il reale per intrufolarsi nei suoi luoghi oscuri (Collateral) e infiltrarsi nelle sue organizzazioni criminali (Miami Vice).

Mann-Dillinger-Burrough

Eppure con Nemico pubblico non è più questione di esplorare i meandri dell'attualità, ma di misurarsi con un personaggio storicizzato dai media: la posta in palio è ancora più alta, il processo di digitalizzazione investe la memoria collettiva. Per l'immaginario americano Dillinger rappresenta una figura simbolica e ambivalente: da un lato le sue imprese criminali vennero inizialmente considerate la giusta punizione contro i potentati economici che avevano scaraventato il paese nella Grande Depressione e dall'altro, contraddittoriamente, la sua morte rappresentò la vittoria del New Deal di Roosevelt contro le tendenze disfattiste annidate nella società. Agli occhi degli americani Dillinger castigò sì le banche ritenute responsabili della Grande Depressione, ma la sua morte, avvenuta il 22 luglio 1934, segnò paradossalmente la fine della Grande Depressione stessa, rassicurando i cittadini sull'efficacia dello sforzo affrontato congiuntamente dalle istituzioni per superare le difficoltà. Un simbolo, nel bene e nel male. Per confrontarsi con una figura così cruciale, Mann ha potuto basarsi su un testo di straordinaria accuratezza storica: Public Enemies: America's Greatest Crime Wave and the Birth of the FBI, 1933-34 di Bryan Burrough, un libro non-fiction impostato come un romanzo ma fondato su un'attendibilità inaudita. Burrough, per la prima volta nella letteratura consacrata agli eventi dei primi anni '30, ha avuto accesso ai documenti originali custoditi negli archivi del Federal Bureau of Investigation, documenti desegretati solo alla fine degli anni '80. Avvalendosi di fonti precedentemente riservate, Burrough ha dunque potuto scrivere 'la prima storia esauriente della guerra al crimine dell'FBI, durata dal 1933 al 1936' (Burrough, p.X), corredandola di foto segnaletiche e cartine illustrative grazie alle quali si possono identificare i protagonisti e seguire gli spostamenti dei principali country bandits del periodo (la banda Barker-Karpis, John Dillinger, Machine Gun Kelly, Clyde Barrow e Bonnie Parker e Baby Face Nelson). Un testo così affidabile e circostanziato è ovviamente pane per i denti di Mann.

Inesattezze sensate

Spalleggiato in sede di sceneggiatura da Ronan Bennett e Ann Biderman, Mann non ha tuttavia rispettato alla lettera l'accurata ricostruzione di Burrough, prendendosi numerose libertà drammaturgiche. Scorporando la vicenda di Dillinger dal quadro complessivo in cui è incastonata nel libro (Burrough affronta le vicende di quegli anni nella loro globalità, individuando nelle operazioni dell'FBI l'elemento unificante), i tre sceneggiatori hanno ritoccato la sostanza dei fatti apportandovi misurate ma significative variazioni. Ne cito soltanto due, le più macroscopiche, per ricavare il senso delle licenze creative: se nell'incipit del film vediamo Johnny Depp in azione durante l'evasione dei suoi complici dal penitenziario statale dell'Indiana a Michigan City (avvenuta il 26/9/1933), nel libro - e quindi nella realtà - John Dillinger è rinchiuso in una cella a Dayton, Ohio (cfr. Burrough, p.117); se nella sequenza successiva Christian Bale spara a Pretty Boy Floyd uccidendolo in un frutteto, nel non-fiction book di Burrough non solo Floyd muore tre mesi dopo Dillinger, ma non è neppure stabilita l'identità del suo giustiziere, dal momento che 'diversi agenti spararono dalla posizione in cui si trovavano, altri mentre inseguivano il fuorilegge' (Burrough, p.425). Quale potrebbe essere il senso di simili alterazioni? Trattandosi di un lungometraggio di finzione e non di un documentario di Quark, la risposta sembrerebbe scontata: semplificazioni narrative. Eppure ci troviamo di fronte a due smaccate infrazioni al partito preso del realismo, per di più collocate in apertura di film: la questione è verosimilmente più sottile e va ricondotta alla caratterizzazione dei personaggi. Facendo comparire Dillinger a Michigan City (e dunque scarcerandolo cinematograficamente), Mann raggiunge un duplice obiettivo: da un lato amplifica l'inafferrabilità del bandito quasi smaterializzandolo (lo status fantomatico di Depp non farà che crescere per tutto il film, raggiungendo l'apice nella visita solitaria alla sezione Dillinger) e dall'altro gli associa il nucleo tematico della reciprocità e della mutua assistenza, chiodo fisso di mister Johnny, che, ironia della sorte, finirà per trovarsi solo. Parallelamente, facendo entrare in scena Purvis a fucile spianato, lo connota senza indugi come un cavaliere della morte che intende ricoprirsi di gloria oscurando l'operato dei suoi collaboratori. Infrazioni che, pur discostandosi dalla realtà evenemenziale, restituiscono perfettamente la dimensione psicologica delle parti in causa [1].

Mann in Shooting Action

È la verità degli uomini, più che quella degli eventi, ad assillare Mann in Public Enemies: cogliere le loro percezioni, le differenti modalità con le quali organizzano lo spazio e il tempo attorno a loro, il modo in cui il loro sguardo e le loro azioni si installano nell'ambiente, modificandolo, opponendogli resistenza o adattandovisi passivamente. In questo senso vanno le dinamiche visive delle sparatorie: gli scontri a fuoco sono girati subordinando la balistica alla logistica. Non sono le traiettorie dei proiettili a contare, ma le posizioni occupate dagli uomini, le loro ansiose operazioni di ricarica, il loro riparo: il luogo di deflagrazione e quello d'impatto decidono la gestione degli spazi e la distribuzione dei punti macchina. Non potrebbe esserci antitesi più netta rispetto all'action hollywoodiano contemporaneo (si pensi a Wanted) o a quello asiatico (totalmente consacrato al bullet ballet). Prestate attenzione (o ripensate) alla sparatoria fuori dalla banca di Sioux Falls (quella in cui Johnny viene ferito): tranne un paio di brevissime inquadrature, tutti gli altri punti macchina sono assegnati alle postazioni della banda, la maggior parte dei quali riprendono le loro espressioni mentre sparano, si prestano soccorso o ricaricano [2]. Girato laddove possibile nelle location dove i fatti hanno avuto luogo [3] , Nemico pubblico è un film che più di ogni altra opera manniana subordina lo spazio agli uomini, ai loro volti (la sovrabbondanza di primi e primissimi piani) e alle loro parole (le continue richieste fatte da Johnny a Billie Frechette/Marion Cotillard di ripetere le sue frasi, il messaggio di addio in punto di morte). Oltre il cinema, oltre il tempo, la visione si eterna in uno sguardo che si perde nel nulla. 'Bye Bye Blackbird'.

[1] Nonostante le discrepanze, Burrough si è detto soddisfatto della sceneggiatura di Mann-Bennett-Biderman: 'I've read the Public Enemies script and, no, it's not 100 percent historically accurate. But it's by far the closest thing to fact Hollywood has attempted, and for that I am both excited and quietly relieved', http://www.vanityfair.com/online/daily/2008/03/bryan-burroug-2.html.

[2] Forse solo James Gray ha avuto altrettanto coraggio nel deprivare cineticamente una shooting action, per di più automobilistica, nei Padroni della notte.

[3] Il Carcere di Lake County a Crown Point nell'Indiana, la pensione Little Bohemia a Manitowish Waters in Wisconsin e il Cinema Biograph in Lincoln Avenue a Chicago, in Illinois.

Ennesimo abbaglio nel tradurre il titolo originale. Public Enemies diventa Nemico Pubblico, focalizzando l’apparente interesse solo su John Dillinger. Ma. Il plurale è più che doveroso per non dimenticare la fondamentale controparte del bandito, Melvin Purvis. Sono le due facce della stessa America, un paese in cambiamento, lentamente immerso in un processo di risistematizzazione, che nel loro ultimo, “epico” scontro, sanciranno la fine di un’era, il nostalgico passaggio dalla wilderness, da un universo di valori in cui l’ordine e il suo opposto si fronteggiavano a campo aperto, lontani dalla ribalta, a un nuovo mondo che procede di pari passo con una progressiva restrizione dello spazio, dove legalità e criminalità si nascondono nella contrazione di un sistema organizzato, rifuggono lo scontro diretto, sostituiscono all’epos della sfida l’accomodante compromesso. (Il legame tra i due personaggi è legittimato anche visivamente. Hoover chiede dove si trovi Dillinger e, nello stacco successivo, in un lento movimento di camera, convinti che si tratti proprio di questo -introdotto in posizione seduta, partendo dalle due gambe accavallate-, ci ritroviamo davanti a Purvis).

John e Melvin, due modalità di percezione, due traiettorie. Se Dillinger è mosso verso uno sconfinamento dello/nello spazio (qui e ovunque), sradica incessantemente la propria collocazione per un oltre, per una non appartenenza ad un sistema, Purvis vuole imbrigliarlo, reazione anestetica all’azione incontrollabile del bandito. Nelle due sequenze che introducono i due personaggi tale dicotomia è manifestata con evidenza. Dillinger “evaso” dal carcere di Michigan City, perso il suo padre-mentore Walter (inizia già da quel passaggio di testimone lo sfaldarsi del passato mitico), viene inquadrato prima in un campo-controcampo (di schiena e in PP con un leggero movimento di macchina) per poi terminare in una soggettiva su un paesaggio rurale che si perde all’orizzonte. La camera è da lui calamitata, la sua presenza fisica è una tensione dinamica, avvolgente, che produce lo spazio. Purvis all’opposto sottrae, immobilizza, riconfigura l’esterno in una geometrica dialettica con l’altro, con il suo obbiettivo. L’uccisione di Pretty Boy Floyd nel meleto è rappresentata con un asettico e razionale rapporto nella distanza. Da una parte Dillinger dipana lo spazio davanti a noi, ne è il metronomo. Esplicativa è la prima rapina in banca in cui sono i suoi movimenti a rompere la rigida architettura dell’edificio (un po’ come il rapporto esterno-interno iniziale nel carcere). Dall’altra Purvis lo accentra, tenta di contenerlo (la rigida articolazione nel dialogo tra lui e Nelson rende bene l’idea). Melvin vuole limitare la pulsione di incessante oltrepassamento di John, figurativizzando, nei banditi da uccidere, una barriera che la argini. Insomma, due modi di percepire lo spazio che crescono e assumono la forma di due traiettorie complementari, destinate ad incrociarsi. Dillinger e Purvis si trovano gradualmente a perdere il proprio spazio d’azione. Congedando i confini del far-west, Dillinger entra all’interno della società, si disperde tra la massa, diventa il Nemico Pubblico N.1, si muove libero (trascinandosi dietro l’archetipico spirito dei nativi americani) , incontrastato, per poi divenire vittima di un’istituzione (legale e malavitosa) che lo porta a consumare l’ultimo spiraglio rimasto. (Osservando le tre sequenze delle rapine in banca, noteremo una sempre maggiore limitazione dello spazio. Nella terza il campo visivo è soffocante, incentivato dall’apertura dell’azione in media res, senza quell’input dinamico che caratterizzava la libertà di Dillinger). Allontanandosi nel primo inseguimento dalla natura selvaggia, lo sceriffo Purvis si ingessa nel meccanismo burocratico di un sistema, vive l’estenuante inseguimento in un successivo avvicendarsi di scacchi, incapace, attraverso le nuove tecnologie di cogliere nel hic et nunc il suo antagonista, sempre leggermente in ritardo, sempre malinconicamente frustrato da un (nuovo) ruolo che gli nega la sfida. Benché accomunati dal tramonto di un’identità che deve congedarsi di fronte al nuovo corso, i due troveranno una via d’uscita diversa. Tradito, Dillinger sarà ucciso all’esterno del Biograph, martirizzato nell’inno di un nuovo immaginario collettivo, trovando quello spazio eterno sempre cercato, il luogo finale da cui (non) evadere, grazie al quale l’ultimo incontro con il suo amore Billie può avvenire nella forza immaginifica (ma effimera) di un’esperienza cinematografica. Il suo corpo morente sul marciapiede brilla alla luce dei riflettori, ne nasce un nuovo Mito, nel passaggio di un testimone che esorcizza con la più commuovente delle eredità uno sguardo che si è perso troppe volte nel nulla. Purvis, controluce, può solo sciogliersi sconfitto nel fuoricampo, venendogli negata la conoscenza delle ultime parole di Dillinger. Una testimonianza toccata al più vivido stereotipo di un’età che se ne sta andando, il glaciale Winstead. Anche per lui, non ci sono astanti ad aspettarlo.

(Purvis è comunque investito dal testamento di John, nell’umano gesto di accompagnare Billie al bagno, dopo che questa è stata messa sotto torchio dai suoi colleghi. Si apre così una dimensione emotiva, di contatto verso l’altro -aspetto che ha sempre caratterizzato la natura di Dillinger- fino a quel momento sconosciuta. Per raffrontare i due personaggi basta creare un parallelismo tra la morte di Walter e quella di un collega poliziotto. Le dinamiche sono alquanto opposte).

Cronaca di un dissolvimento (o meglio, di una dissolvenza), fatta di piombo e cemento, con squarci violenti d’azzurro: il percorso di John Dillinger è quello di un uomo che gradualmente si separa dalla materia per diventare immagine. Ossessionato dall’idea dell’abbandono (già presente nell’evasione dell’incipit con l’addio controvoglia al compare Walter Dietrich colpito a morte e poi amorosamente cristallizzato nel leitmotiv “Bye Bye Blackbird”), Dillinger si aggrappa al presente, al tutto e subito, fugge il tempo, vagheggia l’assoluto. Dillinger ancora non lo sa ma vuole essere cinema. In Nemico Pubblico, Michael Mann intinge l’estetica del gangster maledetto e romantico, creatura forgiata dal cinema stesso (Baby Face Nelson che a Little Bohemia imita James Cagney, public enemy filmico seminale), in un digitale contemporaneo, spigoloso, fremente. Lo choc visivo è spiazzante: un film d’epoca girato in costume digitale, un codificato gangster movie con forti venature mélo raccontato come un’urgente tranche de vie. Lo sguardo in HD di Mann sembra seguire due direzioni diverse, opposte e complementari: se da un lato, come brillantemente spiegato da Baratti, acuisce l’impressione di realtà, restituisce l’immediatezza percettiva di corpi, luoghi, oggetti, dall’altro crea un’atmosfera esistenziale crepuscolare, allucinata, quasi sonnambulica. Nemico Pubblico è così un film straordinariamente materico ed evanescente al tempo stesso (nonché il film più “spoglio” di Michael Mann). Spazi e personaggi si collocano in un inquieto reticolo di buio e luminescenze, una mappa arcana di segnali luminosi (il baluginare dei lampioni e delle carrozzerie delle auto nelle notti di Chicago, la sala delle intercettazioni ripresa come un firmamento stellato, il bosco da fiaba nera dell’agguato di Little Bohemia). Il dettaglio e la sensazione delle cose, il dileguarsi impalpabile degli uomini: quello di Dillinger è un mondo che sta per svanire (la criminalità, burocratizzandosi, perde qualsiasi aura ribellistica) ma che sta anche per trasformarsi in qualcos’altro.
Mann mette in scena la costruzione del mito attraverso la distruzione dell’uomo come fosse appunto una dissolvenza incrociata: John Dillinger/Johnny Depp (stesse iniziali per l’uomo che vive la Storia e l’uomo che interpreta la Fiction) si smaterializza progressivamente all’incedere degli eventi, perde la sua corporeità per imporsi come pura icona (e da ciò scaturiscono anche le diverse libertà narrative prese rispetto alla verità storica dei fatti). La tessitura drammaturgica si sfalda in una voluta, sommessa e malinconica convenzionalità: Dillinger si esprime attraverso pochi ma ficcanti stereotipi da gangster hollywoodiano, Purvis è una nemesi di signorile laconicità. Sempre più spettrale, Depp/Dillinger diventa invisibile nella vita reale (come fa notare la sua donna, Billy Frechette, ai poliziotti che l’hanno arrestata facendosi sfuggire sotto il naso il loro principale obiettivo), visibile solo sul grande schermo (la cruciale sequenza dell’avvertimento al pubblico sulla possibile presenza del nemico pubblico n.1 in sala) fino al vertice della bellissima sequenza della visita del fuorilegge alla Dillinger Squad dell’ufficio di polizia: ormai fantasma, investito di una trasfigurante luce diurna, Dillinger si ferma a contemplare le fondamenta luttuose della propria mitologia nascente. La visione di Manhattan Melodrama (diretto da W.S. Van Dyke, in italiano Le due strade) al Biograph Theater sancisce la definitiva disincarnazione del protagonista. Dillinger è Gable, Mann inquadra Depp come se dialogasse con i primi piani di Mirna Loy nei cui occhi ritrova Billie. Non è un rispecchiarsi nel cinema, è un esserci dentro, definitivamente. Immerso nella Golden Age di Hollywood, Depp/Dillinger è un fantasma di celluloide che vaga in un mondo ad alta definizione, l’assoluto del cinema classico inoculato nell’hic et nunc digitale. Ipercinema. Fuori dal Biograph, Dillinger è già assurto a una nuova esistenza, le luci della città e i fuochi segnalatori delle forze dell’ordine sono proiettori accesi, riverberi spettacolari. Agonizzante sul marciapiede nel suo involucro corporeo, l’uomo abbandona la cronaca nera e abbraccia il mito, sussurrando una frase d’amore.

Non è certo il primo film in cui il “ladro e gentiluomo” diventa simbolo della lotta contro il Sistema o il romantico ultimo rappresentante di un’era al tramonto. È anche consuetudine che opere del genere sostino sulla love-story (per dare “cuore” al protagonista) e descrivano il fatidico ultimo colpo. Per fortuna c’è il cinema di Michael Mann a rendere il tutto meno scontato: classico e potente. Una questione di direzione degli attori, di creazione dei personaggi più attraverso l’azione e meno tramite le psicologie, del ruolo privilegiato riservato alle musiche accorate (quando c’è un conflitto a fuoco, però, parte un eccitante blues elettrico), di scelta dei tempi e incastonatura degli sguardi. Mann, poi, segue la tradizione ma sa innovarla tecnicamente per reiterarla: nelle riprese ravvicinate, negli interni, preferisce la maggior libertà di movimento di una macchina digitale in alta definizione. Si parte in quarta e (a parte gli atti da rubacuori) non si molla più la presa, con eleganza, fra una sparatoria e l’altra (notevole quella girata nel bosco del Little Bohemia Lodge), per arrivare ad un finale dove il protagonista si specchia, al cinema, in Le Due Strade (1934) con Clark Gable (tutto vero e documentato): l’elegia a volte esagera (la scena dove Dillinger visita, senza scomporsi, gli uffici della sezione investigativa organizzata per catturarlo), ma è risolta per cantare l’ennesimo cavaliere d’onore manniano e la fine della sua epoca (i pistoleri soppiantati dal crimine organizzato), mentre si reitera il parallelo, amato dal regista, fra detective e criminale (lo “sceriffo” non del tutto malvagio di Christian Bale fa molto western, Pat Garrett e Billy the Kid).