Drammatico

NEBRASKA

Titolo OriginaleNebraska
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata115'
Sceneggiatura
Montaggio
Musiche

TRAMA

Billings, Montana. L’anziano e acciaccato Woody Grant è convinto di essere il vincitore del primo premio di una lotteria milionaria. In realtà si tratta di una trappola pubblicitaria ma nessuno riesce a fargli cambiare idea e a trattenerlo dalla decisione di andare a Lincoln, Nebraska, dove si trovano gli uffici della società che gestisce la presunta lotteria, per riscuotere la somma. Preoccupato per lo stato di salute mentale del padre, il figlio David, contro il parere di madre e fratello, decide di accompagnarlo.

RECENSIONI

Malmesso, smemorato, scorbutico, andatura instabile e sbilenca, la demenza dietro l'angolo rischiarata da attimi lancinanti di lucidità, Woody Grant è un sopravvissuto. Alla sua storia, innanzitutto. Nel (bel) manifesto del film del suo volto c'è solo un profilo vago, occhiali che incorniciano uno sguardo assente, quel che resta di una chioma arruffata a far da fragile criniera, una silhouette esile che affiora nel buio. Quasi omonimo di quel Grant Wood che immortalò il gotico americano nei tratti granitici di una coppia arcigna su sfondo rurale, reduce silenzioso e riluttante della guerra di Corea, alcolizzato cronico, gran parte della vita passata in un'officina, l'uomo porta un nome monumentale che sembra beffare la sua mediocrità. Non ha mai avuto fiuto per gli affari, sia pur piccoli, non ha mai brillato per intelligenza né per sensibilità, se ha messo su famiglia è stato per un incrocio di caso e istinto (lui voleva scopare, la moglie era cattolica: così spiega la sua paternità). Nel figlio minore, affettuoso e depresso, sembra perpetuarsi sia pur in dosi addolcite dal buon senso l'autocondanna al fallimento ("diventerai come lui", lo avverte a un certo punto la madre): ex bimbo bellissimo, giovane vecchio, uomo qualunque, nello scombiccherato viaggio intrapreso col padre cerca di raccoglierne i cocci, di ricostruirne la figura, anche letteralmente, assistendo alla sutura di una ferita sulla fronte, recuperandone la dentiera tra i binari di una ferrovia.

In Nebraska la provincia sembra non avere fine, è dovunque, si insinua fin nei corpi e nelle coscienze. Siamo al centro dell'impero ma allo stesso tempo alla periferia di tutto, in un midwest livido e svuotato di sogni, illusioni, occasioni, imbambolato di fronte allo schermo della tv, paralizzato dall'ennesima crisi economica, costellato di insegne e cartelli abbandonati, spettri di un'operosità svanita (luoghi che la fotografia di Phedon Papamichael, pur elegante, non estetizza, schiacciando l'orizzonte in un grigio senza scampo). Hawthorne, la cittadina di origine dei genitori in cui David si ferma col padre per una sosta dagli zii, presto raggiunto anche dalla madre e dal fratello, è un villaggio fantasma, un set ripudiato, nel quale il passato si rivela all'altezza dello squallido presente, né migliore né peggiore. Non c'è traccia di elegia degli anni trascorsi né di nostalgia della giovinezza: nella visita al cimitero la madre di David omaggia a suo modo i morti sciorinando epicedi sconci e irriverenti; perlustrando la sua vecchia casa, ormai un relitto nel mezzo di un campo incolto, alla memoria vacillante di Woody non affiorano momenti felici o spensierati. E neanche la Storia con la "s" maiuscola è oggetto di scontata riverenza: i volti dei presidenti incastonati nel monte Rushmore si rivelano allo sguardo di Woody un'opera abbozzata, annoiata, non finita. Priva di energia e di prospettive, l'America di Nebraska è un paese popolato da vecchi, una terza età scontrosa, poco accomodante, infida, inasprita dagli anni e dal disincanto, una comunità post-fordiana (sia nel senso di John che di Henry Ford) che invece di essere avamposto della civiltà sembra anticiparne la dissoluzione. In questo paesaggio umano immobile a resistere in forme tanto ossessive quanto stolide è solo il mito dell'automobile, simbolo datato di una velocità mai raggiunta, di un benessere mai agguantato.

Il bianco e nero nitido e desolato di certe opere di Bogdanovich, i laceranti road movie "a vuoto" di Bob Rafelson, la marginalità ostinata di Hal Ashby ma soprattutto i corpi e le facce, lavorate dal tempo, dell'ottimo Bruce Dern che di quell'epoca fu uno dei volti simbolo seppur mai protagonista e dell'antagonista Stacy Keach, indimenticabile boxeur sul viale del tramonto in Città amara - Fat City, sconsolato capolavoro del '72 di John Huston: Alexander Payne rievoca nei modi e nei contenuti una stagione irripetibile del cinema americano, consapevole della sua irriproducibilità, adattandola a nuove crisi, a cicliche disillusioni. Con Nebraska, epopea minima, on the road fallimentare nel suo assunto (riscattare un premio che non esiste), il regista realizza il suo miglior lavoro dai tempi della caustica satira di Election. Per la prima volta alle prese con uno script non suo ma chiaramente nelle sue corde (il fil rouge con titoli come A proposito di Schmidt e Sideways è evidente), Payne aggira facili consolazioni o morbide indulgenze, trova una misura compositiva alternativa al bilancino dramma-commedia che aveva applicato in modo fin troppo calcolato nei suoi film precedenti, tratteggiando un racconto probabilmente risaputo nel suo sviluppo, ripiegato nel suo grigiore, ma di sorprendente (forse anche inconsapevole) sgradevolezza, appena alleviata dalle musiche di Mark Orton. Il suo umanesimo rimane saldo ma aspro; l'ironia, ondeggiante tra umorismo deadpan e sfogo sboccato, disegna vignette nelle quali il buffo rima con il tragico quotidiano. L'istituzione familiare non ne esce del tutto integra così come l'idea fondante di comunità che sotto una facciata di generica benevolenza è minata da avidità e risentimenti radicati nel tempo e rimodellati dalle difficoltà del presente. La dolente epifania del fallimento di Woody nel ruolo di padre sprovvisto di un'eredità, materiale ma soprattutto spirituale, da consegnare ai propri figli non fa di lui un uomo migliore. Ma è questa vacillante consapevolezza ad innescare un risarcimento provvisorio ad opera del figlio, un atto di pietà (e di complicità tra losers) che si concretizza nella messinscena di un momento di gloria effimera (la sfilata in sella al tanto sospirato pick-up lungo la Main Street di Hawthorne di fronte allo sguardo stupefatto di amici e nemici del passato). Il western donchisciottesco di Woody e David si conclude così, con un epitaffio agrodolce costruito ad arte, un definitivo e tombale ultimo spettacolo.

È la prima volta che Alexander Payne s’affida ad una sceneggiatura non scritta di suo pugno e l’opera ne risente, orfana dei suoi paradossi sottili, di figure di peso (se si eccettua la madre brontolona e sessuomane di June Squibb), di svolte da Paradiso Amaro. È stato attratto dal racconto on-the-road, da questa figura “comune” alla ricerca di un senso di vita (c’è molto A Proposito di Schmidt), anziano e amabile Don Chisciotte stile Harry e Tonto (Paul Mazursky), dalle atmosfere anni settanta che Payne rimarca con la scelta estetica del bianco e nero. Quel cinema, però, era più ambiguo, poetico, disilluso. Payne ha dichiarato che il film è colmo dell’umorismo impassibile tipico del natio Nebraska, evidentemente poco esportabile se non arriva a segno, fatta eccezione per la scena con il compressore rubato (ma è la meno “distaccata”). L’agrodolce dramma del sogno impossibile è di sicuro effetto e il percorso di formazione non appartiene al protagonista ma al comprimario (il figlio, che asseconda il padre per conoscerlo meglio), ma siamo più dalle parti di un Frank Capra favolistico (e Capra non era favolistico) che del cinema di Hal Ashby o Bob Rafelson. La prova di Bruce Dern, attore che, insieme a Stacy Keach (cattivo bidimensionale, emblematico del taglio della sceneggiatura) simboleggia i gloriosi anni della New Hollywood, è superba: una figura assente e menefreghista cui basta un’occhiata, nel finale, per dischiudere un altro mondo (si “accorge” della presenza e del bene del figlio). A grandi linee, il tutto funziona, soprattutto nelle direttrici del racconto se non nel modo di restituirlo, ma il sapore finale, che dovrebbe essere dolce amaro, è quello della melassa, per troppo buonismo, troppa commedia ed una rivincita troppo facile.