TRAMA
Xenofobia, razzismo, violenza, revisionismo: circa 75 minuti nel cuore nero della militanza politica italiana._x000D_
RECENSIONI
Claudio Lazzaro lo conosciamo per Camicie verdi, opera del 2006, e sappiamo il nome intimo del suo impulso: paura. Un timore stringente, il terrore che la valanga sia già in precipitazione. Questo scorre in vena di ogni fotogramma, meno che all’apparenza; il regista è ospite in un “campo d’azione” patrocinato da un certo partito (“la Nashville dell’estrema destra”) e laggiù, a raggio limitato, con poche idee ma cristalline, illustra esattamente il vademecum sulla conduzione di un’inchiesta. Camere discrete, quasi impalpabili, alla mano, la troupe respinge la trappola dell’ interferenza – Lazzaro compare due volte, nessuna voce fuori campo -, se non in forma di domanda, e lascia dialogare le sole immagini. Minime le invadenze del giornalista/documentarista: all’inizio una panoramica secca a tracciare il telaio del massimalismo, descritto non dall’autore ma dai feticci che vivono in esso (tatuaggi, movimenti, slogan, cortei), assediato dall’eccesso grottesco ma anche da punte naturali di sgomento; la contestualizzazione, più cronografica che politica, mediante puntelli d’epoca e avvisi sullo schermo; un mazzo di code sui destini dei personaggi, guardati con occhio determinista, dove l’idea radicale suona fatalmente contigua alla cronaca nera. Poi spazio alle parole dei giovani attivisti: dalle band ai simpatizzanti, molti dialetti che si intrecciano, attraggono e contrastano – la scomoda questione tedesca -, infine acquistano una sinistra vicinanza semantica. Ogni tinta espressiva è risucchiata nello stesso nero linguistico (l’intervista: “L’Olocausto ha colpito al massimo un milione di ebrei” - la canzone: “La curva frana / Sulla polizia italiana”); è un’eclissi di testo, l’oscuramento graduale di forme e sostanze, quella che colloca il film in stato di blackout razionale. Esibizione di atrocità alfabetica: tutto si può ascoltare, tutto si può affermare. L’accumulo è inenarrabile, va solo rilevato. Fino alla corrosione totale e all’aperta dichiarazione di inutilità del verbo. La ripresa della ragazza di 16 anni che, interpellata sulla responsabilità storica del nazifascismo, rifiuta di rispondere, supera l’ultimo gradino della decomposizione – sia fonetica che intellettiva – e dà vita al passaggio estremo: l’ingresso nel mutismo. Purtroppo Lazzaro si concede un finale-manifesto, con squadernamento di “immagini forti” a sciogliere pubblicamente il nodo della memoria, ma questo è anche l’ unico, eventuale difetto che peraltro non abbassa le sirene dell’ allarme sociale. Il documentario impaurito: quadri stralciati, senno a brandelli, frammenti di brividi.
