- Drammatico
- Giallo
- 66590
TRAMA
una passioNe impetuosa, un morto Ammazzato, una Pista fantasmatica, un trauma da risOLvere, una derIva quasi horror
RECENSIONI
Ferzan Özpetek è regista in grado di ammaliare il pubblico (si può permettere di firmare il poster con il solo cognome) ma è quasi sempre stroncato dalla critica che ad ogni film, quando va bene, esordisce con “è il suo progetto più ambizioso, ma purtroppo..”. Questo film non fa eccezione. Eppure, Napoli velata è più riuscito delle sue ultime deludenti opere. Sarà lo sguardo particolarmente avvolgente del regista, che filma una città a lui congeniale fatta di estremi folcloristici di grande fotogenia, sarà una ritrovata Giovanna Mezzogiorno, che sembra un pesce fuor d’acqua proprio come il personaggio che è chiamata a incarnare, oppure è proprio l’atmosfera che il film riesce a evocare, un impasto non privo di fascino di esoterismo, ineluttabilità e apparenza ingannevole. Sta di fatto che, nonostante una sceneggiatura che fa di tutto per inguaiarsi senza trovare un approdo felicemente fluido, l’insieme riesce a farsi seduttivo. È una seduzione di pura superficie che nasce da quel movimento di macchina di apertura che cita Alfred Hitchcock per poi passare a Dario Argento (a proposito, perché quel flashback a inizio film che rende subito lo spettatore più consapevole della protagonista?) e che finisce per soggiacere al vedo non vedo imposto dal regista.
È infatti il “velo” il vero protagonista del film. Apre il sipario sui personaggi intenti ad assistere alla “Figliata”, rito arcaico in cui le doglie del parto sono simulate da un “femminiello” sdraiato su un letto. Protegge la protagonista da una verità difficile da accettare e dal giudizio del mondo. Si stende su una città in cui riti ancestrali e modernità convivono non senza attriti e in cui tutto può accadere mentre sembra che nulla accada. Si posa sul celeberrimo Cristo di Giuseppe Sanmartino di cui esalta le forme pur coprendole. Ma è anche il filtro attraverso cui la vicenda si dipana per lo spettatore, sempre sul punto di comprendere e sempre sviato. Il film prende quindi la forma di una riflessione sullo sguardo e sulla complessità della percezione. La verità è sempre sotto gli occhi (la cui simbologia invade il film) ma bisogna decidere di vederla e anche quando si pensa di averla afferrata può essere solo un’illusione, vedi la bella sequenza conclusiva che nell’assenza mette, forse, tutto nuovamente in discussione. Il finale concretizza quindi il mantra che abbraccia tutto il film sull’importanza del sentire rispetto al vedere. Purtroppo le felici intuizioni sono più momenti singoli che tasselli di una visione davvero organica. Il problema non è infatti tanto nei molti generi che si intrecciano tra loro, ognuno con i suoi codici e la sua fame di risposte, quanto nella mancanza di raffinatezza che spesso le parole hanno rispetto alle immagini. Se l’allusione di certi passaggi colpisce in positivo (come la soluzione del giallo, a cui si può decidere di credere o meno, in base allo spessore del proprio “velo”), dialoghi improbabili, svolte forzate, simbolismi fin troppo insistiti e disequilibri di scrittura finiscono per disperdere l’alto potenziale messo in scena. Ed è un peccato, perché induce a porre l’accento più sui difetti che sugli aspetti positivi.