TRAMA
Ove, vedovo di 59 anni, decide di uccidersi: mentre sta per impiccarsi viene interrotto dall’arrivo dei nuovi vicini, una famiglia di origine iraniana.
RECENSIONI
Ove è solo. Ha perso la moglie, perde anche il lavoro: è chiaramente la perdita che genera il suo carattere respingente e scontroso. Si specchia nel vicino infermo, sa che può diventare come lui. Decide di farsi da parte, preparando minuziosamente la dipartita prima di sottrarsi al mondo: l’arrivo della famiglia iraniana non solo interrompe il suo suicidio ma, così facendo, già si pone apertamente come elemento positivo nel tessuto narrativo, come ipotesi di una luce. I nuovi vicini possono estrarre Ove dal guscio in cui si è auto-recluso, lui deve solo capirlo. Inizia nella più classica declinazione di genere Mr. Ove di Hannes Holm, tratto dal romanzo L’uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman, grande successo in Svezia (già annunciato il remake hollywoodiano con Tom Hanks): film imperniato sull’unico protagonista, debitamente eseguito da Rolf Lassgård, anziano e irascibile, fissato con l’ordine e la difesa del proprio spazio (un luogo/mausoleo in ricordo della moglie) in controtempo sul contemporaneo e refrattario al cambiamento con cui si pone in aspro conflitto.
La sostanza del carattere si apre lentamente al confronto col diverso: dall’iniziale ostilità, come sempre, per tappe affiora il contatto e l’opportunità di capirsi. Ove si reca ogni giorno sulla tomba della moglie, parla con la defunta in riprese insistite, che esplicitano la sua mancanza e spiegano il nervo scoperto. Il racconto avanza scandito dal commento musicale a motivi ripetuti, jingle piani e riconoscibili: ci chiede di amare il personaggio. Ed è impossibile non accordare empatia a un vedovo, scostante perché malinconico, innamorato della moglie perduta. Nella sua manifesta volontà di piacere, l’incipit del film lascia presagire una lunga estorsione sentimentale: per fortuna, però, a ravvivare la convenzionale premessa interviene una modalità narrativa a tratti peculiare. Se è vero che quando muori la vita ti passa davanti, a Ove scorre un frammento di esistenza per ogni tentativo di suicidio: nel principio di asfissia o intossicazione l’uomo rivede il se stesso di ieri, e noi lo rivediamo con lui. È così che, ogni volta che prova a infliggersi la morte, si materializza un brandello di racconto (strategia meglio segnalata dal titolo originale, A man called Ove: non solo Ove qui e ora, quindi, ma anche come lo è diventato e il modo in cui ha vissuto). Apprendiamo il percorso del protagonista attraverso l’accostamento di singoli tasselli (la morte del padre, l’incontro con la moglie, il valore dell’amicizia); l’autore costruisce un piano alternativo al presente, un doppio binario dove l’essenza solitaria di Ove viene affiancata dal racconto delle circostanze che la generano: c’è una tragedia nel passato di cui egli sente la responsabilità, con cui deve riconciliarsi. Peccato che poi le memorie di Ove, gradualmente, perdano il collegamento coi tentati suicidi e diventino racconti, come quello strappalacrime all’iraniana Parvaneh, lasciando l’acuta caratteristica originaria per offrirsi come semplici flashback.
Alla fine, per Ove, il destino si compie: solo da una rinascita può arrivare la morte, stavolta per cause naturali, che segna l’agognata ricongiunzione con l’amata nel sogno-allucinazione finale. È la firma di una love story dal sentimentalismo esangue, dove la brusca superficie nasconde solo una maggiore sostanza, più forte della morte. Ove passa per l’apertura all’altro prima di ottenere la chiusura di sé: occorre toccare e capire il diverso, sia questo un migrante giunto da lontano o un giovane gay alla rivelazione dell’identità sessuale (la macchietta più debole), e dopo si può finalmente morire. Protagonista “con un cuore troppo grande” (d’altronde il problema medico di Ove è un’ipertrofia cardiaca), messaggio evidente, ricostruzione di una vita struggente, incontro e comprensione delle minoranze, realizzazione del proprio obiettivo: è la chiusura di un cerchio perfetto, forse anche troppo. Candidato all’Oscar 2017 per la Svezia come migliore film straniero.