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TRAMA
Il giovane Mózes torna a casa dopo un breve ricovero psichiatrico. Suo padre, figura autoritaria e monolitica che lo intimidisce, muore improvvisamente. Ma il suo fantasma -reale? Immaginario?- lo segue anche dopo la morte, comparendo nei modi e nei luoghi più inattesi. A quel punto Mózes gli subentrerà nel ruolo di pastore protestante, per portarne a termine i compiti e, liberandosene, liberare sé stesso e le propie potenzialità. Non senza fare un po’ danni.
RECENSIONI
Utóélet, così il titolo originale, ovvero “Afterlife”, è un film sulla vita durante la morte-lutto, più che dopo. E infatti la definizione di “al di là” racchiude già l'ironia di una commedia intelligente che si svolge tutta al di qua, dove le cose appaiono, scompaiono, vivono, muoiono, sono soggette a cambiamenti e decadimento che quasi mai vengono risolti o compresi, il tutto in una cornice sociale indifferente, ipocrita e moralista.
Mózes, infatti, nella propria fragilità psichica, nell'instabilità del contesto sociale, nella distanza di quello famigliare, a partire dalla sua scelta vegetariana compresa praticamente da nessuno, contiene già nel nome “Mosè” il concetto di schiavismo e di liberazione. La traduzione italiana del titolo gli affianca il “pesce” e la “colomba”, con una suggestione un po' favolistica, in realtà esplicitandone i simboli, fra i più antichi nell'iconografia cristiana, il pesce che rimanda alla stessa figura di Cristo, la colomba come segno di pace che appare quando le acque dei Diluvio universale si ritirano: nel film abbiamo il primo, pescato e poi parcheggiato in un boccione d'acqua-ricarica per dispenser da ufficio, per pietà, in attesa di giudizio; la seconda che, lanciata in volo durante il funerale paterno, a raffigurarne l'anima liberata, piomba pigramente a terra rifiutandosi di rispondere al proprio ruolo, anzi, facendosi indizio di una falla nel rito del trapasso.
È chiaro che qualcosa non torna, che la tradizione ostinata incontra il rifiuto dei suoi referenti classici, e a quel punto appare logico che il padre-pastore non ha più una collocazione precisa, perché niente lo ha, e tutto è -o dovrebbe essere- soggetto a revisione.
Ecco che, nell'incertezza, vita e morte, religione e spiritismo, si mescolano, com'è già accaduto spesso al cinema, dal grande classico Ghost (1990), all'Eastwood di Hereafter (2010), alle Le madri di Chico Xavier sull'omonimo medium brasiliano (2010), al recente Corpi (2015), col quale si contano non poche analogie, dal concetto di “corporeità” e “incorporeità”, al trauma psichico inserito in quello sociale, attraversando lutti e spezzature nelle relazioni famigliari, notando, inoltre che, ungherese l'uno, polacco l'altro, siamo con entrambi in un'Europa Centrale che riflette sul proprio spaesamento, entrambi con una regia femminile di impronta non memorabile, ma comunque efficace, entrambi con una chiara ricerca, all'interno del dramma, del sorriso, dell'ironia, di una leggerezza che si potrebbe definire curativa – anche se Corpi resta un drammatico, mentre con Mózes percorriamo deliberatamente il terreno della commedia-.
Trama essenzialmente di formazione, il film è, nello svolgimento, piacevole, a tratti giustamente bizzarro, scritto con coerenza, di poca tenerezza e solo vagamente cinico; un po' prevedibile in alcuni passaggi, pur funzionali, poco originale nella scelta e nella direzione dei comprimari; non offre e non sembra cercare grande empatia, funziona nelle sue intenzioni. Ora si possono aumentare le intenzioni.
Vince il primo premio nella 35esima edizione del Bergamo Film Meeting, 2015. Non mancano riconoscimenti internazionali.