TRAMA
2014: la città irachena di Mosul cade nelle mani di ISIS-ISIL (l’esercito iracheno e i suoi alleati riusciranno a riconquistarla solo nel 2017, dopo una controffensiva durata quasi un anno). La squadra SWAT di combattenti locali della provincia Ninive resiste, fra ordigni, macerie e la morte dietro l’angolo.
RECENSIONI
Avere almeno un parente ucciso o essere stati feriti in prima persona da ISIS: questa la condizione per far parte dell’unità SWAT di Mosul, capoluogo del governatorato di Ninive, Iraq del nord. L’unica ad aver combattuto senza mai retrocedere, nella controffensiva dopo l’occupazione del territorio da parte dello Stato Islamico.
Muoversi in un deserto di macerie popolato di armi e nemici armati, guardarsi le spalle, guardarle agli altri, sapere di potere morire e di dover uccidere, in ogni momento: Matthew Michael Carnahan al suo primo film, ma già sceneggiatore di World War Z e The Kingdom, gira su recentissime basi storiche un efficace war movie che, per tensione drammatica, sviluppi narrativi, atmosfere, rapporti fra personaggi, riconosciamo senza fatica come il caro buon film di guerra americano, in grado di catturarci dall’inizio alla fine nel suo ruotare intorno a una singola operazione bellica, una missione. Nell’ “operazione” cinematografica rientra invece la scelta di attori (quasi) locali, dunque di girare un film in lingua araba, una scelta che risulta tuttavia molto sentita da parte del regista che, dopo aver letto il reportage The Desperate Battle to Destroy ISIS (La Disperata Battaglia per Distruggere Isis) su The New Yorker, si dichiara mosso quasi dalla necessità di narrare una storia che non conosceva né immaginava, che pure riguarda un paese al quale il suo ha dichiarato guerra, invadendolo, appena il decennio scorso (2003-2011). Ma oltre a scrivere il film, stavolta Carnahan lo gira anche. La sua ammirazione verso questi combattenti che perseverano in condizioni estreme si traduce nell’epica di guerra da cui emergono condizioni umane ed emotive divergenti, ma accomunate dalla tragedia e dal bisogno di riscattare il proprio paese, la propria realtà, di riprendersi la propria esistenza, di sconfiggere un nemico comune. Suhail Dabbach, iracheno che ha studiato recitazione all’università di Baghdad, guida una squadra-cast che comprende, fra gli altri, il tunisino Adam Bessa, nel ruolo del giovane adepto curdo -a distanza di neanche un paio di mesi dall’uscita del film questo dettaglio rimanda ad altri drammatici scenari bellici-, l’iracheno Qutaiba Abdelhaq, il marocchino Ben Affan.
A complemento e contraltare della storia di guerriglia, compare al momento giusto il dato affettivo, nello svelamento dello scopo della missione che salderà maggiormente i superstiti, richiamando alla mente il legame umano, ben oltre che cameratesco, di un Salvate il Soldato Ryan. In questa America che racconta dunque degli antichi nemici in lingua araba, ma in linguaggio cinematografico prettamente americano, usciva in sala appena qualche mese prima di Mosul, un altro Mosul, stesso anno, stesso nome, ma documentario, scritto e girato dall’ex agente della CIA Dan Gabriel, anch’egli al suo primo lungometraggio.Se nel Mosul di Carnahan, girato in Marocco, la fotografia di Mauro Fiore (Avatar, A team, Training Day) garantisce un funzionale realismo, nel Mosul di Gabriel la color correction accentua i rossi, conferendo densità drammatica alle immagini reali girate in Iraq, alle interviste alla gente del posto che si racconta non come squadra, ma come realtà eterogenea che converge nel medesimo luogo e subisce la medesima sorte, fra antiche divisioni culturali mai placate. Tale settarismo è proprio ciò su cui il film si interroga. Ed è interessante notare la necessità, in queste produzioni statunitensi, di tornare sul territorio del nemico che fu, per ragionare del presente, di ciò che è e che sarà il mostro Isis, una creatura, nel suo islamismo estremista, terribilmente occidentale.
