Drammatico, Recensione

MOONLIGHT

Titolo OriginaleMoonlight
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata110'
Sceneggiatura
Tratto daliberamente dalla pièce In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Miami. Il piccolo nero Chiron cresce in un quartiere desolato segnato da droga e violenza, vittima dei compagni. Nell’adolescenza Chiron ha un incontro sentimentale con Kevin, il suo unico amico. Poi le loro strade si separano.

RECENSIONI

Tre parti, tre attori, tre stagioni della vita: un percorso. Moonlight è la storia di una gabbia. È un film che inizia in pieno sole, nello slang e nella luce di Miami, con un piano sequenza che circumnaviga i personaggi e subito dopo un bambino inseguito dalla camera a mano (qualcosa già lo rincorre, e lui fugge): Chiron si rinchiude al buio e tappa le orecchie per non sentire i rumori dall'esterno. 'Qui fuori non può essere peggio', sostiene Juan: ma ha torto, lo è molto. Non c'è da interpretare nel film di Barry Jenkins: è tutto contenuto nel quadro dell'immagine. È un continuo ribadire l'impossibilità di manifestarsi, di esplicitare il sentire interiore: Chiron è chiamato faggot dai compagni, la sua prigione sta nell'incapacità di dirlo lui stesso. Non sa cos'è essere gay, lo chiede. Vive in un contesto che lo condanna e stronca qualsiasi tentativo di aprirsi. Ogni volta che Chiron ci prova subisce un riflusso spietato che lo ricaccia nella chiusura: dopo l'incontro sentimentale con Kevin incassa i suoi pugni, dopo la reazione al bullismo viene perfino arrestato. È in catene: e questo incatenamento Jenkins non lo enuncia, lo mette continuamente in campo attraverso l'inquadratura. È nel piccolo Chiron che non parla, non vuole dire nemmeno il suo nome. Nel corpo a corpo malickiano tra due bambini che contiene, in potenza, i semi dell'amore. E soprattutto nella sequenza in spiaggia. Qui si consuma un atto sessuale parziale, un rapporto incompleto in cui il dettaglio della mano di Chiron stringe i granelli di sabbia: Chiron prova a trattenere il vero sé, ma la sabbia scorre via tra le dita.

Jenkins conferma la reclusione interiore di Chiron a livello estetico, la sua è anche una gabbia di colore: il nucleo duro dell'esteriorità si concretizza cromaticamente nelle tinte pastello di Liberty City, come il rosa e l'arancione, colori aumentati che nelle loro impennate inchiodano il protagonista al fuori, segnalano ancora la difficoltà di schiudere il dentro. In realtà l'eventualità di essere se stessi esiste, e c’è anche un indizio. Nell'incipit il film rivela l'istante in cui c'è l'opportunità di svelarsi: nel racconto di Juan quando un nero, illuminato dal chiaro di luna, cambia colore e diventa blu come tutti, omologandosi nell'apparenza. Ma in realtà nessuno è blu, dice Juan, ognuno deve scegliere chi è. Il film racconta la difficoltà di questa scelta, la paralisi del mancato svelamento. Chiron è chiamato a dichiarare la pelle che abita, per questo la cinepresa ne accarezza le superfici suggerendo l'impossibilità di eroderle. Jenkins inquadra la pelle perché è il solo spazio visibile, la sola immagine a disposizione: spaccarla e scavare, per Chiron, non è contemplato. E non sono lontani gli ultimi film di Almodovar, i corpi come gusci e la forma come unico terreno plausibile, evocati in un dissonante Caetano Veloso incastrato fra brani rap.
Moonlight si dipana nel tempo, diviso sfacciatamente in capitoli, e inscena le mutazioni radicali del corpo seguendo le leggi delle conseguenze narrative: da un bambino magro deriva un giovane bullizzato da cui deriva un adulto muscoloso. L'io invece è sempre lo stesso. Mentre Chiron si scarta all'esterno, all'interno si incarta: il non detto dell'animo viene inasprito mostrando le tappe dell'evoluzione esteriore, così la sostanza diviene sempre più imbrigliata proprio perché indifferente ai passaggi del corpo. E così è più insostenibile lo sguardo di Chiron adulto alla spiaggia, il luogo della verità, esattamente come l'immagine/ricordo finale di Chiron bambino: perché lì c'è la consapevolezza, in fondo, che le cose potevano andare diversamente.

Jenkins per cinematografare la pièce di McCraney sceglie uno scavalcamento di campo che non prevede posizione etica: Chiron ama una madre tossica, incontra madri e padri surrogati, un pusher amico come prima ipotesi maschile che scompare nell’arco di un’ellissi. Noi stessi siamo dalla parte di uno spacciatore afroamericano (il Chiron adulto) con il quale ci riconosciamo per emozione, attraverso un’estensione di senso, facendo coincidere coi nostri i suoi moti interiori. Per arrivarci il regista impagina consapevolmente l'archetipo, ci fa riconoscere in un immaginario, come la metafora di imparare a nuotare o la vicenda sentimentale altrettanto primitiva, con la sua scena d'amore in spiaggia. Ma conta davvero il fatto in un film che riguarda l'essenza? Ed è per questo che del cinema civile ha solo il contesto, del queer movie solo il dato di un uomo che si innamora di un uomo: ma sono punti di partenza, non approdi. Il nocciolo è sempre la manifestazione di sé. Chiron è fermo all'amore di gioventù, è una statua di sale come Jim nell'omonimo romanzo di Gore Vidal del 1948 (The City and the Pillar): lì, dopo aver ricordato l'incontro carnale dell'adolescenza, Bob dice a Jim: «Forse in fondo in fondo non eravamo altro che due piccole checche». Al contrario di Vidal, che chiude nell'atto violento, Jenkins però sospende la storia. All'ultimo incontro Chiron gradualmente si apre: è la dialettica visiva con Kevin, come sulla spiaggia, che lo dischiude e accoglie la piena comprensione del dramma, ovvero la realizzazione dell'altro come 'statua', incapace di fare un passo negli anni. E tutto sommato, nel ghetto nero di Miami, chi siamo noi per chiederlo? Chi siamo per esigere la rivelazione? 'You're the only man who ever touched me', dice infine Chiron, e il verbo che usa è toccare, non amare. C'è dell'amore in Moonlight? Chissà. Jenkins rispetta il dubbio, non lo svende alla retorica del corpo ma lo rapprende in uno sguardo, nel volto di un pusher dai denti d'oro, nella possibilità di un abbraccio. Cosa avviene dopo non lo sappiamo: lo struggente spiraglio di Chiron, forse, arriva già troppo tardi.

Premio Oscar 2017 come miglior film, miglior attore non protagonista (Mahershala Ali) e migliore sceneggiatura non originale (Barry Jenkins).

Il miracolo (per responso critico e di pubblico, fino all’Oscar) del secondo lungometraggio dell’indipendente Barry Jenkins si basa, anche, sulla coincidenza che lo vede prendere le mosse da un saggio per l’Accademia d’Arte Drammatica (presentato poi, in forma breve, al Borscht Film Festival di Miami) del commediografo Tarell Alvin McCraney, cresciuto nello stesso, duro, sobborgo del regista: Liberty City. Entrambi, poi, hanno avuto una madre tossicodipendente (quella di McCraney, però, è deceduta per Aids). Si vede che Jenkins è un grande estimatore della nouvelle vague (e del cinema orientale: la struttura in tre atti viene da Three Times di Hou Hsiao Hsien): più che ai padri fondatori (anche se il finale è alla I 400 Colpi), pare rifarsi alla seconda generazione, con ritratti umani delicati e/ma elementi dirompenti nei percorsi vitali, ma innesta tali stilemi in un panorama sottoproletario tipicamente statunitense, alla The Wire (per l’esterno: lo spaccio) o Boyz’n the Hood (per l’interno familiare), con l’aggiunta di un percorso di formazione non solo alla violenza ma anche sentimentale e omosessuale. Può stupire che l’Academy abbia premiato un cinema così poco “americano”: stupisce ancor di più l’entusiasmo critico di fronte ad un’opera che, per quel che dice e per come lo dice, almeno secondo le matrici autorali europee, ha poco di nuovo se non un commento sonoro sinfonico per archi che stride felicemente con scenari urbani (e tribù etniche) che evocano ben altri ritmi. Curioso anche questo tocco morbido con cui si ritraggono i caratteri e si descrivono i sentimenti, a specchio di un protagonista che del suo essere silente, vessato ma orgoglioso fa i suoi tratti distintivi. Grandi attori, su tutti il premiato Mahershala Ali (già apprezzato nel serial Luke Cage) che, con quel modo tutto suo di recitare con sorriso permanente, irradia lo schermo (ma è presente solo nel primo capitolo).