TRAMA
Sul lato oscuro della luna, il solitario contratto triennale di Sam Bell con la Lunar Industries è agli sgoccioli. Ma accade qualcosa di inspiegabile.
RECENSIONI
L’opera prima di Duncan Jones, trentottenne autore di qualche spot pubblicitario ma più noto per questioni genealogiche (è figlio di David Bowie), centra alcune ricorrenze simboliche e commerciali: il quarantennale dello sbarco sulla luna (luglio 1969) e del primo successo del papà (Space Oddity, novembre 1969); il decennale della morte di Kubrick (marzo 1999); (e, se vogliamo eccedere in numerologia, i trentacinque anni dall’uscita italiana (sciagurata, come noto) del Solaris di Tarkovskij). Gli anniversari sono tutti pertinenti, a ben vedere, spiritualmente e geograficamente: Moon si svolge tutto sul satellite eponimo; rielabora colori, architetture e gadget del capolavoro di Kubrick (2001: Odissea nello Spazio, 1968) e di certe geometrie anni settanta; riassapora certi umori e certe allucinazioni introverse e claustrofobiche del film di Tarkovskij; insiste sull’isolamento ipnotico di un uomo solo impegnato in un impossibile dialogo a distanza con una Terra enorme, blu e lontanissima. Le influenze sono spiegate senza timidezze e con sobria spontaneità: script, regia e scene giocano coi riferimenti, ma senza doppiezze o ironie sleali (su tutti, un piccolo spoiler: il computer Gerty, ricalcato immancabilmente sul modello di HAL 9000, è un alleato che offre spontaneamente il proprio spegnimento per il successo della fuga di Sam): l’immaginario è digerito e pacificato e non c’è traccia (questo è davvero notevole) di alcuna tensione citazionista (il riciclo è piano e sereno, al limite del naïve; gli elementi di genere si dispongono linearmente, pronti al riutilizzo semantico, con disarmante semplicità). Il soggetto è accattivante e pensoso, la complicata interpretazione di Rockwell è ottima, il design un po’ vintage è irresistibilmente fascinoso. Insomma, Moon è un piccolo gioiellino che offre parecchi motivi di piacere. Alcuni ci interessano di più:
Spazi. Il film ha una geometria chiusa e carceraria, acuita dalla solitudine del protagonista, dal ritardo nelle comunicazioni (le conversazioni non avvengono dal vivo, ma con registrazioni), dalla notte perpetua del dark side. La razionalità degli spazi punta dritta ai modelli di riferimento e consente all’incedere del film di farsi meditazione visiva. I modi bruschi o goffi di certi passaggi riguadagnano, poi, il sapore della generosità un po’ acerba e sincera che colora tutta la pellicola.
Ritmo. Moon apre con l’umore forte della suspense: qualcosa di sinistro sta per accadere. La tensione è approfondita, con modi tipici, dalla dilatazione dell’azione: il film procede lento giocando sui toni del thriller e promette, dopo il “fatto”, una detection graduale e climactica. Poi, invece, stupisce e stranisce con una rivelazione a sorpresa che ribalta il respiro del film: dall’ansia investigativa all’accumulo intimista. La verità del plot - l’inghippo - vien fuori a un tratto, inaspettatamente, alla fine del primo atto; il tempo del dramma sembra subito frettoloso e grossolano; l’avvio del secondo atto suona bislacco; ma il senso migliore arriva per successive stratificazioni.
Alienazione Moon è un film di fantascienza dura e pura che pone con ingegno e schiettezza visiva il tema dell’alienazione (l’imbroglio aziendale suggerisce la semplice chiave metaforica anticapitalista, o quasi). L’alienazione qui è radicale ed etimologica: je est un autre - lo svolgimento è delicato ma pervasivo e si concede ancora aritmia e naiveté in chiusura (una chiamata frettolosa alla liberazione e alla resistenza).
L’ultima nota è per il contrappunto musicale. Clint Mansell è un musicista britannico portato al cinema da Aronofsky (sono sue tutte le colonne sonore dei film del regista di Brooklyn: il piccolo culto lo raggiunge con Lux Aeterna, l’impressionante (ed estenuante) tour de force musicale che infesta Requiem for a Dream) e che si integra perfettamente col minimalismo di Jones e compagnia.

Esordio indipendente e a basso costo del figlio di David Bowie (produce la moglie di Sting), sotto il nume tutelare comune della Luna (Bowie divenne famoso proprio grazie all’allunaggio, quando la BBC mise come colonna sonora la sua Space Oddity): Duncan Jones s’è fatto le ossa nella pubblicità e ha una predilezione per la fantascienza (genere del suo cortometraggio Whistle), soprattutto quella sfornata negli anni settanta, metafisica. Il suo soggetto (sceneggiato dal figlio di Alan Parker, Nathan) l’ha partorito dopo aver letto “Entering Space” di Robert Zubrin, che immagina un futuro tecnologicamente avanzato in cui la logica del profitto permane, e non è tanto sorprendente per situazioni e snodi del racconto, ma per il passo sospeso, ipnotico con cui è filmato: soprattutto per l’uso dei silenzi, a sottolineare la solitudine nello spazio dell’uomo, in assenza di commento sonoro se non nelle rare escursioni dell’astronauta sulla rover. Jones guarda a 2001: Odissea nello Spazio per il realismo tecnologico, la musica sinfonica diffusa nella base, Gerty come Hal 2000 e, soprattutto, la fantascienza come mezzo per analizzare l’essere umano; ma anche a Solaris (in una delle sue allucinazioni Sam Bell vede una donna), a 2002: La Seconda Odissea (l’uomo solo nello spazio e la sua “energia pulita”) e ad Atmosfera Zero (lo sfruttamento disumano dei lavoratori). L’incedere lasco e riflessivo diventa romantico nel momento in cui l’amore impiantato nella memoria non muore anche davanti all’evidenza dei fatti: peccato che Jones si soffermi maggiormente sul dramma dei cloni con tutte le sue implicazioni psicologiche (non sempre governate al meglio), piuttosto che perlustrare a fondo i territori trascendenti (il Mistero delle allucinazioni), perché ha talento proprio nell’azzerare gli eventi, creando un’atmosfera molto evocativa. Sam Rockwell si sdoppia ed è bravo, ma per differenziare i caratteri calca troppo la matrice “comica” del clone anziano.
