Drammatico, Recensione

MONSTER (2003)

Titolo OriginaleMonster
NazioneU.S.A./Germania
Anno Produzione2003
Durata109'
Sceneggiatura
Scenografia
Musiche

TRAMA

Lee Wournos, prostituta di professione, si innamora di Selby, una ragazza lesbica molto più giovane di lei. Intraprendono una fuga disperata, dove Lee per trovare i soldi comincia ad uccidere e derubare i suoi clienti, fino a diventare la prima donna serial killer nella storia degli Stati Uniti.

RECENSIONI

Caduta libera

L’ostentazione del brutto e dannato è la pustola degenerata di una società cadaverica, che riduce in mille pezzi il Sogno Americano vestendo i soliti abiti del film anti-sistema. MONSTER si tuffa nella classicità dell’inferno suburbano: una spremuta di sciagure avvolge la protagonista fin dall’infanzia e, illusorio ogni sospiro d’amore, la condanna alla sedia elettrica ancora prima del tempo. La maratona verso l’abisso non soltanto tocca il fondo ma vi sguazza disinvolta tingendosi di plumbea cupezza, senza nulla concedere a lacrime o pietà; quando il nucleo narrativo ha già dispiegato le sue ali questo è ostacolato da una sorta di schematismo di fondo, che sostanzialmente si esprime in: confronto Lee/Selby – omicidio – danaro – confronto Lee/Selby etc. Una formula limitativa che inciampa sulla ripetizione nel momento in cui, al posto degli snodi fondamentali, vengono mostrati tutti i crimini della protagonista per assecondare una pornografia dello sguardo lontana dalla funzionalità. Nella costruzione di un personaggio sostanzialmente “ignorante”, poco istruito e dominato dal Fato Cattivo (della serie: l’uomo non può fare il Bene), il film si nasconde dietro ad un paravento fin troppo permissivo, che rischia di trasmutare la figura sullo schermo in una ruvida invettiva sull’essenza del vero crimine, dato che “si uccide per la politica e per la religione”. Consapevole del limite imposto dalla materia (la gabbia del genere è dietro l’angolo) l’esordiente Patty Jenkins architetta comunque una sadica tortura di interessante fattura, che si guadagnerà ripetutamente l’appellativo di disturbante. Il dolore è sincero e sentito, il tainted love tutto femminile sfiora un picco struggente, il piglio antitetico è parzialmente riuscito (vite degradate nell’acceso splendore di un Luna Park).
Christina Ricci al solito non è bella ma sensuale in sguardo e postura; Charlize Theron, esplosa in tutti i sensi, è in soprappeso di autentica perfezione. Broncio all’ingiù gonfiato agli angoli dei labbroni, lentiggini come marchio di fuoco, occhi che sono quelli dell’anima. Che la smitizzazione della diva rischi la gratuita faciloneria è un warning costante che cala sulla platea (si riveda la Kidman anziana di THE HOURS e lercia di DOGVILLE) ma un’interpretazione di tal fatta, oltre a rivelarsi palesemente come punto di svolta di un’intera filmografia, polverizza ogni sospetto di deriva academyca.
Eppoi quel finale: cattivo e disperato come pochi, un agghiacciante tramonto dell’umanità su cui è difficile aggiungere altro.
Tratto da una storia vera, bellamente smontando la magica finzione dell’occhio filmico.

Mostruosi punti di vista

Prova da Oscar non prova: Charlize Theron, impegnata e imbruttita all’inverosimile, è caricata/caricaturale, con mossette da bullo deforma in fisica la mostruosità psicotica che l’esordiente Patty Jenkins cerca faziosamente di giustificare: sorta di grossolano (perché distorto e pregiudiziale) e ipocrita (perché si veste da pellicola realistica-cronachistica) pamphlet femminista, la pellicola si compiace nel disegnare figure maschili rivoltanti (associazione puttaniere=pervertito violentatore pedofilo opportunista mentecatto), nel cantare il più delicato amore saffico e nel glissare sulle tare psichiche della protagonista (per suggerire che non ci sono?), trasfigurate in bisogno d’amore (tanti "Ti amo", nessun crimine), missione contro il Male, sopravvivenza, semi del maschilismo porco e sciovinista, del bigottismo, dell’insensibilità in generale (per precisare che la vita non le ha dato occasioni, la regista addita i direttori del personale che non la assumono per ruoli qualificati?). Salvo poi, verso il finale, invertire la rotta (solo) perché nella rete del serial killer finiscono pesci innocenti: fin lì, Dio e autori spalleggiano Aileen, anche perché uccidono di più politica e religione (per favore…). Schivate le edulcorazioni nelle immagini, la regista cede alla tentazione di creare un’aura romantica attorno alle motivazioni all’agire della protagonista (già ritratta nel film-Tv Overkill), fino a rendere confusi i personaggi, non ultimo quello della Ricci, nei fatti capriccioso e volubile (e traditore), nei modi sfumato per essere preservato come oggetto d’amore della povera vittima assassina. Qualche buon tocco: la parte iniziale dove l’Io narrante innocente cozza con le immagini brutali dall’infanzia; l’allegoria della ruota panoramica; la tristezza nel cuore con cui Aileen si fa uccidere dal proprio amore. In fondo è un film a tesi, immorale perché dissimulato, più reazionario e retorico di quel che dà ad intendere. C’è solo un punto di vista mostruoso, candito nell’amore.