Amazon Prime, Drammatico

MONICA E IL DESIDERIO

Titolo OriginaleSommaren med Monika
NazioneSvezia
Anno Produzione1953
Durata96'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Monica ha sedici anni e fa la commessa, Harry è di poco più anziano e lavora in un negozio. Si incontrano, si innamorano, lasciano Stoccolma e vanno a vivere su un isolotto. Tuttavia, l’estate dell’amore è breve.

RECENSIONI

Un'estate fa non c'eri che tu
Ma l'estate somiglia a un gioco
È stupenda ma dura poco.

Monica e il desiderio è un film che dice 'sono come tu mi vuoi'. Per i distributori, che riuscirono a fabbricare un successo commerciale, fantasiosamente si trasformò in un film scollacciato e scandaloso da promuovere con affiche e slogan degne di un Vitali / Fenech ante litteram. Per la Nouvelle Vague fu feticcio e serbatoio di icone: l'estremo primo piano con prolungato sguardo in camera di Harriett Andersson ("lo sguardo più triste della storia del cinema" decretò Godard) sarà matrice e segno identitario e Antoine Doinel ruberà proprio una foto di Monica per il suo altare privato di magnifiche ossessioni. Infine per l'autore, al culmine della prima fase eminentemente artigianale della propria carriera, si trattò semplicemente del "film meno complicato. Tiravamo semplicemente avanti e si girava. Ci rallegravamo della nostra libertà". Siamo nel 1953. Mancano solo quattro anni a quel 1957 che sconvolse il mondo del cinema quando Ingmar Bergman, a costo di esaurimento nervoso e ulcere, genererà tra le altre cose Il settimo sigillo e Il posto delle fragole. Ma è con Monica e il desiderio (nell'originale il meno ammiccante, più pacato Sommaren med Monika, ossia Un'estate con Monica) che Bergman comincia ad essere Bergman.
È di fatto un bis di Sommarlek (Un'estate d’amore), uscito appena due anni prima, eppure sembra esserci un'epoca intera in mezzo. Bergman è un regista poco più che trentenne di belle speranze, grande insicurezza e grande arroganza, e scrive e dirige a cottimo e ritmi fordisti per la Svensk Filmindustri film che considererà, con la consueta scarsa autoindulgenza, poco più che spazzatura. Sommarlek è in parte la stessa storia di Monika: due giovani scappano da Stoccolma e vanno a trascorrere un'estate d'amore tra le isole dell'arcipelago. Non finirà bene in entrambi i casi ma, significativamente, a venir rovesciato è il giudizio ideologico che se ne trae. Inoltre se Sommarlek può apparire spesso un film convenzionale e piatto salve alcune scene e tutta la sezione isolana, magica e incantevole, ciò è tipico del primo Bergman che mette omeopaticamente dell'ispirazione autoriale dentro prodotti industriali (ricordiamo anche ad esempio la reverie di Viktor Sjostrom in un film altrimenti prescindibile come Verso la gioia). Anche Monica e il desiderio si accende e esplode a contatto con la natura eppure le scene urbane hanno un'identità solida (e leggermente anacronistica) a metà tra il neorealismo e il realismo poetico, che tanto influenzerà il primo Fellini.

Monica e Harry - lei Harriet Andersson, esordiente di cui "la macchina da presa si innamora a prima vista"; lui il giovane teen idol locale Lars Ekborg - si incontrano in un bar a Stoccolma. Monica, incarnando decenni di fantasie di maschi mediterranei sull'intraprendenza nordica, fa la prima mossa e abborda Harry chiedendo di accendere una sigaretta. Subito, prima ancora di presentarsi, gli propone di "andare, vagare senza meta". Entrambi hanno lavori alienanti, vengono molestati da colleghi e superiori e vivono con famiglie disfunzionali e grigie e deprimenti. Per il mai-marxista Bergman, radicalizzato dagli anni di militanza nel sottoproletariato dell'industria cinematografica, la simpatia per la ribellione (e per la neonata categoria dei "giovani") prende forme marcusiane e di spontaneismo anarchico. "Vogliamo vivere, non lavorare" dicono presessantottini Monica e Harry. E, soprattutto, non vogliamo finire abbruttiti come i nostri genitori. Harry è un sognatore disadattato che si incanta in mezzo al traffico, Monica è troppo anticonformista per una società maschilista quale è persino la civilissima Svezia negli anni cinquanta. L'incontro dona consapevolezza e audacia alla loro rivolta contro le convenzioni, che prende la forma della fuga.
Se, come detto, in Monica e il desiderio si può intravedere in filigrana quasi il volto barbuto di Karl Marx - Harry spezza simbolicamente le catene dell'oppressione rompendo un bicchiere nella vetreria dove viene schiavizzato e oppresso - esso è mediato da Marcuse e Marcuse è Marx più Freud. Non un Freud qualunque per di più, bensì quello de Il disagio nella civiltà. Se la città/civiltà è il luogo dell'alienazione del lavoro come della repressione degli istinti e della sublimazione del principio di piacere, resta solo una cosa da fare: dire addio alle sue lusinghe e alle sue promesse disattese e andarsene. La sequenza della fuga in barca è mirabile: un montaggio quasi ivensiano di soggettive dal motoscafo in anticlimax, dai canali cittadini con ponti e palazzi - reali e no - fino a boschi e fiordi e quindi le isole. In pochi secondi che hanno il silenzio delle cospirazioni si compie una regressione che innesca una trasfigurazione. Raggiunto l'arcipelago, il mare aperto, tutto rinasce, e si impegna a divenire una prima volta del mondo. Nel peculiare paesaggio elementare, scarso di determinazioni e fatto in gran parte da nuda roccia affiorante dell'arcipelago di Stoccolma tutto cambia. Innanzitutto i volti e i corpi degli attori, sproporzionati contro il mare, il sole, la pietra da primissimi piani abnormi come in pale medievali, cambiano come per miracolo istantaneamente connotati, si fanno più sexy, sembrano (e sono) corpi e volti perennemente post-coitali, fondendosi col paesaggio si sciolgono e distendono. Ugualmente la grammatica filmica: il (neo)realismo immediatamente diventa stile libero. Si passa dall'esplorazione epidermica e erotica dei corpi quasi helmutnewton all'astrazione, dal pedinamento alla ripresa dall'alto che rende tutto superficie e dal montaggio poetico di immagini in rima allo slogamento del ritmo conforme a un luogo fuori dal tempo. Quasi didascalicamente, alla cacofonia cittadina si sostituisce un sound in presa diretta di gabbiani, grilli e sciabordio di onde.

L'archetipo dell'isola deserta, approdo degli amanti dall'Odissea a Laguna Blu, significa il passaggio da "io e te contro il mondo" a "io e te lontano dal mondo" fino a "io e te primi nella storia del (nuovo) mondo". Molti teen drama sono, esattamente come la Creazione biblica, versioni ridotte e simboliche della cronistoria dell'adolescenza della specie umana: racconti di migrazione, colonizzazione, riproduzione. Monica e Harry si fondono in un nucleo procreatore e sono Adamo ed Eva dentro il giardino dell'Eden. Monica si sveglia, la prima mattina, e perlustra il mondo nuovo nel suo chiarore aurorale. Poi, insieme, si esibiscono in una performance scimmiesca, praticano il naturismo e il sesso en plein air. Sono perfettamente liberi, in un stato anteriore al peccato e alla vergogna della propria nudità, i quali non tarderanno a manifestarsi annunciati dalle forme serpentiformi della lotta con l'intruso, della fame e del furto. Che si prepari una cacciata dall'Eden si capisce dalla natura che ora mostra anche il suo volto inquietante (il canneto, il gufo, la ragnatela) e soprattutto dall'uomo evoluto che comprende di aver perso irrimediabilmente la capacità di sopravvivenza in un ambiente non addomesticato. La fuga dalla civiltà, il tentativo di regressione e alternativa nomade, è destinato a trasformarsi fallimentarmente in una semplice vacanza. Si può vagabondare tra le isole finché le isole finiscono. "Abbiamo sognato anche noi": l'apparir del vero è la fine dell'estate - una stagione molto più breve, in Scandinavia, perciò ancora più simbolica e mitizzata - e il ritorno all'ordine che è l'alienante, opprimente ordine sociale del lavoro e delle responsabilità, della paternità e della famiglia. Il viaggio a ritroso, speculare, verso Stoccolma si compie su note cupe e, se Monica dichiara enfatica "la nostra vita sarà sempre entusiasmante, noi ci ameremo sempre", già avvertiamo come un presagio il verso di Majakovskij "la barca dell'amore si è schiantata contro la vita quotidiana" (qui la barca è sia reale che metaforica). Monica e il desiderio è un classico film in tre atti hegeliani ed è proprio nel terzo che capiamo che Bergman è maturato, ha trovato il coraggio di essere Bergman. Il grande amore adolescenziale, fiorito in un eden erotico isolano, si trasforma ovviamente in un menage triste un secondo dopo il sacro vincolo del matrimonio. Un regista normale, più ipocrita, avrebbe prima ammiccato all'escapismo dello spettatore per fare cassetta per poi ammannire la morale convenzionale per cui bisogna difendere la società anche a scapito della propria felicità individuale e non spaventare i moderati. Invece il primo sguardo di Harry sulla figlia neonata è lo sguardo terrorizzato e assente di chi vede la vita mutarsi in morte-in-vita mentre il suo ultimo slancio vitale, creativo, immaginifico sarà la reverie dedicata a Monica seminuda tra sole e onde. Bergman ha il coraggio di prendere la parte dei perdenti ossia l'irresponsabile, l'utopia, l'Es contro il Super Io, le ragioni di disadattati, misfits e teenager nell'ostinarsi a esistere contro i fatti.
Non sorprende il feticismo di molte generazioni di giovani turchi per Monica e il desiderio, uno dei primi film a celebrare senza riserve l'adolescenza e i suoi aspetti sovversivi (non tanto in senso socio-politico - a quello ci aveva già pensato Jean Vigo - quanto privato, esistenziale). La Nouvelle Vague si innamorò delle inquadrature e degli sguardi in camera e altrettanto della sua velocità: i personaggi godardiani oligofrenici, sempre in moto hanno preso appunti sugli spostamenti volubili, l'andare veloce in motoscafo della coppia di innamorati svedesi. Un debito esplicito se JLG, scrivendo di Sommarlek e Sommaren med Monika, celebrerà in questo modo il regista svedese: «Un film di Ingmar Bergman è, per così dire, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si dilata per un’ora e mezzo. È il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere fra due battiti di mani». Non si contano le filiazioni al confine del remake, tra le quali va citato almeno il bellissimo, ipnotico Marie Baie des Anges di Manuel Pradal.

Ed è una seconda generazione Vague / Cahiers come Oliver Assayas a dire tutto in Itinerario bergmaniano, uno dei saggi più penetranti mai dedicati al maestro nordico:

«Quell'inquadratura così bella, con il battello dei due amanti, in pieno sole, che lascia la banchina per dirigersi verso l'isola dove essi avranno la loro stagione di felicità, Monika è sdraiata sul davanti, bellissima, la barca si allontana, sempre di più, lei si alza, le gambe un po' scostate, le mani sui fianchi, di fronte al mare. Un'immagine di tale forza che Bergman la riprende in extenso per chiudere il film. Monika che ha appena rubato della carne in una villa e, inseguita, corre tra rovi e acquitrini stringendosela al petto. E Harriet Andersson, ancora, che in 'Vampata d'amore' obbliga l'attore Franz, a cui più tardi si concederà, a sdraiarsi ai suoi piedi. E il suo volto in quell'istante. Sono stato a lungo eccitato dalla celebre foto di Monika che Antoine Doinel ruba dalla bacheca di un cinema nei 'Quattrocento colpi'. (...) Raramente infatti si è riusciti a esprimere meglio di Bergman la violenza erotica dei primi amori dell'adolescenza, raramente la forza del desiderio, l'avvicinarsi dei corpi, la pienezza della loro soddisfazione sono stati mostrati in modo così vero e crudo. E anche il loro contrario. In 'Un'estate d'amore', in 'Monica e il desiderio' e altre volte ancora, scoppia come il fulmine della collera divina l'incontro violento tra il sogno di una felicità carnale e la trivialità del quotidiano, la crudeltà del reale. È l'immagine-chiave della fine dell'adolescenza, la stessa immagine che attraversa tutta la storia dell'arte, da Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, lui condannato a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, lei a partorire con dolore, entrambi ormai vergognosi della loro nudità. La sofferenza, gli strazi, le umiliazioni, i compromessi che assillano il cinema di Bergman si fondano sulla nostalgia di un paradiso perduto, e certamente non sarebbero così profondi, così forti, se Bergman non fosse stato all'inizio uno dei grandi pittori contemporanei di questo Paradiso. <Povero papà, obbligato a vivere nel mondo reale...>, questa battuta di 'Come in uno specchio' che potrebbe essere emblematica di tutto un aspetto dell'opera di Bergman, non avrebbe tanto valore né tanta forza se quel film, di nuovo con Harriet Andersson, non rappresentasse dieci anni dopo, raggiunta la maturità, il ritorno sull'isola del Paradiso di 'Un'estate d'amore' e 'Monica e il desiderio', e lì non ci fosse rimasto più nulla, assolutamente nulla: nient'altro che invocare un Dio mostruoso e nascosto, attraverso le brume della follia e della solitudine».