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MON CRIME

Titolo OriginaleMon crime
NazioneFrancia, Belgio
Anno Produzione2023
Genere
Durata102'
Sceneggiatura
Trattodall'omonima opera teatrale di Georges Berr e Louis Verneuil
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Nella Parigi degli anni trenta, l’aspirante attrice Madeleine Verdier è accusata dell’omicidio di un produttore. Il suo processo, attorno a cui gravitano le vicende di molte persone, ne fa una star mediatica.

RECENSIONI

Lo conosciamo bene Ozon, in questi anni lo abbiamo seguito con passione (questa rivista è stata la prima a dedicargli uno speciale): è uno dei nostri autori prediletti. E il suo percorso filmografico ci entusiasma anche per la sua varietà, una proposta eclettica in cui si possono distinguere filoni e dove, nonostante ciò, ciascun capitolo reca il marchio inconfondibile del suo artefice. Come dico ormai in automatico, è proprio il complesso della sua prismatica filmografia il vero capolavoro del regista, tanto che non sorprende che alla domanda che gli posi su quali fossero i suoi titoli prediletti lui abbia tagliato corto e non abbia voluto menzionarne nessuno in particolare. Posto che ci occupiamo di questo film prima di Peter Von Kant che lo precede nel tempo (il film che ha aperto la Berlinale 2022 esce in questi giorni), con quale Ozon abbiamo a che fare stavolta? Direi con quello più cinefilo, il colto conoscitore della Settima Arte che ne ha imparato ogni ricetta e sa ricucinarla a suo modo, anche (e non è da sottovalutare) in una prospettiva di botteghino (di questa capacità del francese di navigare nel mercato dicevo qui). Mon crime è l’Ozon di 8 donne e Potiche (il regista parla apertamente di trilogia), quello che attinge al teatro brillante francese riprendendone personaggi, atmosfere, toni sapendo cosa va a smuovere nell’animo del pubblico transalpino (non sorprende, dunque, che, come i due titoli menzionati, sia stato un altro grande incasso in patria) e mettendolo in mano a un cast studiato al millimetro (volti di gloria indiscussa + gioventù emergente e di talento, per creare approvazione trasversale) purtuttavia non limitandosi alla formula, ma come al solito - nume non dichiarato l’ultimo Alain Resnais - piegandola ad altro, ammiccando, insinuando, provocando. La consueta congerie di citazioni, meccanismi oliatissimi, saggi cinematografici in pillole (qui alla spudoratezza: Amore che redime, il primo film di Billy Wilder - coregista Alexander Esway - al cinema), in cui il divertimento che suscita ciò che si mette in scena si confonde con quello della messa a punto del congegno che lo contiene e lo organizza. Cuore e testa, insomma, quelli dell’autore, innanzitutto, che si sollazza con la pièce di Georges Berr e Louis Verneuil (1934, come il suddetto film di Wilder, ché niente si fa a caso) e poi si bea ancora di più giocando di specchi riflessi sull’attualità, piegando la commedia a discorso politico (lo fa da sempre), creando scompiglio ideologico (insomma, François, ma tu come la vedi questa storia del #metoo?), insinuando trame omo sottotraccia (l’amica-avvocata Pauline, evidentemente innamorata) e narrando implicitamente storie alternative. Un'attestazione di ingegno cinematografico, di onnipotenza persino, l’ulteriore tappa di un tour filmografico in cui il francese continua a piantare nuove bandierine sul cinemappamondo. Una prova un po’ (lo dico?) coeniana, nel senso di consapevole, cosciente, matematica dimostrazione di padronanza di impianto, topoi e genere nella quale poter comodamente distendere la propria filosofia. Che è quella che predica l’autenticità impossibile, l’inevitabile menzogna del cinema,  come sottolineato dalla mise en abyme che si apre agli occhi dello spettatore all’inizio (il sipario rivela una scena finta che diventa quella vera della vicenda, per sovrapporsi, alla fine, a quella di Il calvario di Suzette, l’opera recitata a teatro) e dal susseguirsi di lunghe scene dialogate in interno.

Sì, perché questo Mon crime, narrando di Madeleine Verdier, attrice squattrinata che si autoaccusa dell'omicidio (che non ha commesso) di un produttore che l’ha molestata e che, assolta per legittima difesa, fa di quell’episodio la sua fortuna (salvo il venire a galla della verità…) è film che la sua natura teatrale la rivendica e ne fa dispositivo. Così Madeleine forse è un’attrice mediocre, ma diventa grande nel ruolo che si sceglie, quello dell’assassina, nella messa in scena allestita per il processo, in cui testo e interpretazione, credibili, sanciscono il suo trionfo. E in cui anche la causa delle donne è perorata attraverso una bugia, tanto che l’innocenza della protagonista diventa paradossalmente (che di commedia del paradosso parliamo) un problema. A dire (forse) che in una società patriarcale corrotta per una donna difendersi onorevolmente non è possibile. Ozon amplifica questo carattere nella sua messa in scena, finta ed esagerata, impastata di recitazione tutta enfasi e gigionismi (inutile dirlo, ma lo si dice: versione originale, senza alternative) e sottolinea la questione del cinema-bugia facendo proliferare, nelle forme del film muto, un intreccio di ipotesi di fatti - dissonanti, contraddittorie, tutte possibili e possibilmente false - mescolando il teatro boulevard con la screwball hollywoodiana evidentemente omaggiata (André Dussolier in un ruolo che al tempo avrebbe interpretato un Adolphe Menjou). Gioco cinefilo? Esercizio di stile? Acrobatica declinazione di un tema tra passato e presente? Tutte queste cose, cercate e ottenute, reazioni incluse.