MON COLONEL

Anno Produzione2006

TRAMA

Quando a Parigi viene ritrovato il cadavere di un militare dalla dubbia reputazione, l’ex colonnello Duplan, il Ministero della Difesa francese apre prontamente un’inchiesta. Nel corso delle indagini spunta fuori un documento assai compromettente (per il defunto Duplan), ovvero il diario redatto qualche decennio prima da un giovane attendente, Guy Rossi. Costui aveva prestato servizio sotto il colonnello nel 1956, durante la Guerra d’Algeria, i cui orrori emergono prepotentemente dagli appunti del giovane, scomparso poi in circostanze misteriose.

RECENSIONI

Vittima o carnefice? La seconda che hai detto

Strano scherzo del destino, proprio in un festival che si è aperto con la notizia della scomparsa di Gillo Pontecorvo, indimenticabile autore de La battaglia di Algeri, il concorso offriva tra gli altri un titolo come Mon Colonel. Doloroso viaggio a ritroso nel tempo, il film di Laurent Herbiet non si fa scrupolo di infilare nuovamente il dito in una piaga storica della società francese: la Guerra d’Algeria con la sua scomoda eredità, per l’appunto. Ma anche se il riferimento diretto è alle vessazioni e agli orrori che hanno accompagnato il processo di decolonizzazione, non mancano le allusioni all’attualità, ad un mondo in cui tanti politici sembrano emulare nei loro ragionamenti il feroce pragmatismo del colonnello Duval. Sembrano cioè giustificare il ricorso alla violazione sistematica dei diritti umani, alla rappresaglia, all’esercizio della violenza sui prigionieri politici e di guerra, con il pretesto della lotta contro la minaccia terrorista. In Mon Colonel è ben rappresentato il conflitto di coscienza che contrappone la visione cinica e spregiudicata di Duval (Olivier Gourmet) ai tentennamenti del suo attendente Guy Rossi (Robinson Stévenin), attratto in certi momenti dal carisma del superiore, ma ancora capace di contestarne i metodi quando questi cominciano a produrre eccessi ingiustificabili. Eppure lo stesso Rossi, prima di rendere manifesta una forma di dissidenza che in un modo o nell’altro gli sarà fatale, si sentirà spinto più volte ad avvallare le torture sui prigionieri algerini ed altri crimini del colonnello, anche solo per fedeltà alla divisa. Risulta quindi evidente, nel film, la critica ai meccanismi perversi messi in moto dalla disciplina militare.
Lo scenario cui abbiamo fatto riferimento è quanto affiora, in flashback, dall’inchiesta condotta ai giorni nostri, per cercare una spiegazione all’omicidio del colonnello Duval: come considerare costui, vittima di un gesto inconsulto, oppure criminale di guerra giustiziato da una misteriosa mano vendicatrice? La lettura del diario di Rossi segna le tappe di un progressivo disvelamento della verità. È indubbio che la mano di Costa Gavras, autore della sceneggiatura insieme a Jean-Claude Grumberg, si avverta positivamente. Lo spessore del film-inchiesta dai penetranti risvolti politici c’è tutto. Ciò che invece gli manca, nonostante la lunga gavetta di Laurent Herbiet quale assistente di cineasti del calibro di Blake Edwards, Claude Lelouch e Alain Resnais, è una regia ispirata. L’effetto vintage dei passaggi al bianco e nero, in occasione dei segmenti ambientati nell’Algeria in rivolta, rivela troppo spesso un gusto patinato. E nonostante un cast di tutto rispetto (su tutti il “dardenniano” Olivier Gourmet, ma anche Robinson Stévenin, Eric Caravaca e Bruno Solo appaiono convincenti nei rispettivi ruoli), si avvertono qua e là fastidiosi cali di tensione. Specialmente in quei continui “ritorni al presente”, che offrono dell’indagine condotta congiuntamente da militari e polizia uno spaccato freddo, monotono. Almeno fino al “redde rationem” finale, con una apparizione memorabile di Charles Aznavour, volta a lasciare un segno emotivamente rilevante.

                                                         Stefano Coccia