TRAMA
Lo yoga e l’Autan non sono in contraddizione? La luce del frigorifero si spegne veramente quando lo chiudiamo? Perché il primo taxi della fila non è mai davvero il primo? Perché il martello frangi vetro è chiuso spesso dentro una bacheca di vetro? E la frase: ti penso sempre, ma non tutti i giorni, che sembra bella, è davvero bella? A queste, e ad altre questioni fondamentali, cerca di dare una risposta Paolo (Pif), cui rimangono solo 1 ora e 32 minuti per fare i conti con i punti salienti della sua vita.
RECENSIONI
Il cielo può attendere. Un titolo iconico di Ernst Lubitsch che diventa, letteralmente, canovaccio narrativo per il nuovo film di Daniele Luchetti, libero adattamento di due libretti firmati dal co-sceneggiatore Francesco Piccolo (l’omonimo Momenti di trascurabile felicità e – ebbene sì – Momenti di trascurabile infelicità). Non solo Lubitsch, ma anche un po’ di Frank Capra, qualche spunto alla Ritorno al futuro (tra l’altro citato esplicitamente in un dialogo) filtrato da più di una tentazione modalità Se mi lasci ti cancello. Un film derivativo? Non esattamente. Momenti di trascurabile felicità gioca con molteplici suggestioni che diventano blocchi di partenza per foggiare un’opera amarognola e divertita, che strizza l’occhio a destra e a manca – umorismo, leziosità, melanconia – per raggiungere un fine tutt’altro che banale: mettere in piedi un’operazione eminentemente “popolare” (Pif, i libri di Piccolo, le scenette comiche) plasmata attraverso elementi linguistici e narrativi che, se non ci piace definire “raffinati”, possiamo perlomeno etichettare come “non necessariamente immediati” per il grande pubblico (il flusso di coscienza, la sospensione surreale).
Fra alti e bassi, Daniele Luchetti è un regista con un’esperienza trentennale alle spalle: dagli esordi che lo hanno segnalato sulla mappa del cinema italiano e europeo (Domani accadrà, Il portaborse, I piccoli maestri), alla maturità della doppia consacrazione cannense (Mio fratello è figlio unico, La nostra vita), nonostante le ultime prove più sottotono (Anni felici, Io sono tempesta). Con Momenti di trascurabile felicità Luchetti ritrova un certo baricentro del suo cinema, firmando un’opera sicuramente difettosa, ma a suo modo solida: godibile, leggera senza sciatteria, disimpegnata senza rinunciare all’intelligenza. C’è innanzitutto uno sforzo nell’adattamento del materiale di partenza (i libri di Piccolo), il cui carattere frammentario e epigrammatico resiste alla base ad una trasposizione cinematografica diretta. La difficoltà si avverte soprattutto nella prima metà del film, quando l’andirivieni di ricordi e il flusso di coscienza del protagonista inciampano in un loop che prelude ad un punto morto, la compilation ripetitiva di scenette e intuizioni. Nel complesso, il film riesce però a sollevarvi dall’impasse, orchestrando un’effettiva connessione narrativa fra i vari frammenti e i personaggi, immaginando una storia laddove non c’era, evitando di isolare le singole trovate e piuttosto mettendole in relazione all’interno di uno schema coerente (ad esempio, la ricorrenza del tema del calcolo del tempo, ossessione fatale del protagonista dall’incidente iniziale alla – ammettiamolo, deliziosa – sequenza del passaggio a livello).
Fra gli aspetti più interessanti, la caratterizzazione del protagonista – Paolo – e lo sfruttamento attoriale del suo interprete – Pif. Paolo è il baratro della medietà. Non tanto per le sue passioni medie (il calcio, gli amici del bar, prevedibilmente le donne), ma soprattutto per i suoi tic e modalità comportamentali, sospese fra l’inetto e il compulsivo, che ne appiattiscono la vita ad un grado zero dell’esistenza, quel “nulla di fatto” che lo porta finalmente ad un sussulto nel momento in cui scopre di essere morto: “ho ancora un sacco di cose di fare” o meglio “ci sono così tante cose che non ho fatto”. Ma l’intento non sembra mai essere quello di fare la morale al pubblico. Pur con la leggerezza della commedia, Luchetti non fa sconti al suo personaggio. È un ossessivo, di un’ossessività vuota e stupida, non immediatamente tenera o simpatica, che lo porta a calcolare e ricalcolare il quarto di secondo in più che si può sfruttare quando tutti i semafori sono rossi (per andare dove, poi?). È un fedifrago incorreggibile, un donnaiolo di provincia triste e mai seduttore, che cede passivamente alle tentazioni delle varie amanti che si fanno avanti, provando per loro un desiderio più ipotetico che viscerale. Ad una donna ne succede un’altra: anche questa è solo un’ossessione che gira in cerchio (anche nel finale, la messa in scena del lieto fine è in realtà incrinata da un sms che macchia la favola). È insomma un uomo senza qualità, quel genere di uomo senza passione per la vita, in cui è la differenza fra un fastidioso passaggio a livello e un più comodo sottopassaggio a determinare la possibilità di amore per una donna (la moglie, interpretata dalla luminosa attrice-cantante Thony). In questo senso l’utilizzo di Pif come attore/non-attore è perfettamente funzionale al discorso. La sua recitazione monocorde (per volontà o impossibilità) e il tono di voce sul filo della monotonia restituiscono fisicità ad un personaggio il cui trattamento è più interessante di quel potrebbe sembrare, meno bonario e rassicurante degli stereotipi che abitano di frequente i territori della commedia italiana.