Commedia, Drammatico, Recensione

MIRACOLO A LE HAVRE

TRAMA

Due eventi danno uno scossone alla vita di Marcel Marx, un pacifico lustrascarpe di Le Havre: la grave malattia che colpisce la moglie e l’incontro con un giovane clandestino in fuga dalla polizia.

RECENSIONI

Marcel Marx. Tutto un mondo in un nome: il brumoso realismo poetico di Carné, la mai abbandonata lotta di classe. Categorie etiche ed estetiche siglate già all'anagrafe. E Le Havre, porto per definizione, riparo (esauriente dunque il sintetico titolo originale, sbracato come quasi sempre quello italiano). Aki Kaurismäki non perde tempo nello schierarsi, fissando già nel fulmineo incipit tramite gli occhi di due diseredati le sozzure impresse sul suolo della contemporaneità. Il cinema del Nuovo Fronte Popolare ha sguardo finlandese, corpo francese e cuore apolide.
Abbandonate alle spalle le velleità artistiche parigine (sono passati circa vent’anni da Vita da bohème, altro film di Kaurismäki del quale era uno dei protagonisti), il candido ma nient'affatto stupido Marcel si è trasferito alla periferia dell'impero, autoesiliatosi in un luogo di continuo passaggio, di merci e di uomini e di uomini diventati merce da inscatolare e immagazzinare (o alla quale cambiare etichetta, come il suo collega 'cinese'). Ha scelto un mestiere inutile e fuoritempo, quello del lustrascarpe, assai scarsamente remunerato ma esercitato con rara signorilità e vive con la moglie Arletty (altro nome-segno, cinefilia che non è vezzo ozioso ma scelta politica di campo) in un quartiere di dignitosa e colorata povertà, spruzzato di vino bianco e calvados e costellato di baguette e uova sode, abitato da figurine prevertiane solidali osservate senza miserabilismo o pietismo ma con affettuosa impassibilità e sardonico tratteggio. L'irruzione della malattia e la comparsa di un giovanissimo immigrato ricercato dalle forze dell'ordine infrangono l'apparente eterna quiete del paesaggio e l'atemporalità della narrazione, quali diverse manifestazioni di un medesimo virus mortifero che minaccia la frugale serenità del microcosmo. Una rottura che si traduce anche in un piccolo shock visivo: l'interpolazione delle immagini d'archivio del reale smantellamento della jungle di Calais (l'accampamento dei sans-papiers abbattuto dalle autorità francesi nel settembre del 2009) nell’antinaturalismo beffardo ed elegiaco al tempo stesso della messa in scena. La favola, mai dimentica delle brutture dell'attualità, trae proprio da questa consapevolezza la sua ragion d'essere, fugando l'ombra facile del buonismo, in quella che appare essere anche una disincantata logica compensatoria, una sfida lanciata alla scienza e alle istituzioni e alla scienza disumana delle istituzioni (a proposito dell’ottimismo del film il regista ha dichiarato: 'Tutto l'affare dei profughi è qualcosa di veramente deprimente con troppi finali tristi nella vita reale, così un'opera di fiction che tratta questo tema ha bisogno di almeno due lieto fine per creare una sorta di bilanciamento'). La coscienza dell'improbabilità favolistica forgia l'aspirazione all'utopia.

La ligne claire di Kaurismäki dipinge un mondo essenziale, limpidamente stilizzato, secondo i dettami di una studiata naiveté che non ha assolutamente nulla di ingenuo, screziata di occasionale ferocia (come nel personaggio impersonato con complicità masochista da Jean-Pierre Léaud, un Antoine Doinel incarognito e invecchiato male). Kaurismäki non abdica in nulla al suo stile, sempre sostanzialmente uguale a se stesso, eppur sempre in lotta, mai domo: la rigorosa economia dei movimenti di macchina (con una manciata di carrelli a 'riscaldare' improvvisamente la generale fissità delle inquadrature), la tavolozza di colori saturi ad opera del fidato Timo Salminen, il modernariato straniante delle scenografie, le gag mute costruite su oggetti déplacés (l'ananas dell'ispettore Monet), il potere salvifico del rock (qui incarnato, ennesima collisione di fiction e realtà, nella bizzarra figura di Little Bob, al secolo Roberto Piazza, 'l'Elvis di Le Havre', che nel concerto di beneficenza organizzato per pagare a Idrissa la traversata della Manica canta 'Libero', ispirata al padre, anarchico piemontese cresciuto in epoca mussoliniana e poi emigrato in Francia). Cinema pervicacemente 'albino', che depura la cronaca e resiste con le armi di un'inossidabile ironia deadpan e di una poesia discreta dalle ascendenze chapliniane.
Lo splendido tocco bressoniano che concludeva il precedente desolato e sottostimato Le luci della sera (per chi scrive uno dei capolavori del regista finlandese) ritorna qui convertito in un'analoga e preziosa epifania, disperazione e speranza rivelando medesime radici: dissolte le nebbie del porto, sventata un'ennesima alba tragica, fiorisce un ciliegio.
Nel quartiere di Aki Kaurismäki i miracoli, a volte, accadono.

Fra Marx e il realismo fantastico/poetico di Marcel Carnè (in un nome: Marcel Marx), Kaurismaki compone una favola populista (con stesso protagonista di Vita da Bohème) scontata dall’inizio alla fine, in assenza di quelle piccole punte anarchiche e “maledette” che davano più sapore ai suoi apologhi morali in difesa dei reietti, dei poveri in lotta contro le istituzioni. I personaggi sono tutti, al solito, meravigliosi e tocca il cuore, la solidarietà e la dignità dei miseri raffigurati, ma tutto è aprioristicamente dato per scontato, con il miracolo (del titolo italiano che, giustamente, richiama Miracolo a Milano di De Sica, ma anche del testo che recita “I miracoli nel nostro quartiere non accadono”) che rientra nella categoria “fai una buona azione e il Cielo ti premierà”. Kaurismaki rifà, praticamente, Welcome (2009) di Philippe Lioret, senza più gag straniate (una sola: quella di Marcel che, nel centro clandestini, si fa passare per avvocato e fratello albino del detenuto), tracce misteriose (L’Uomo senza Passato…) e attimi di poesia sospesa (qui, per lo più, si agisce e si parla in continuazione) ma, né poco né molto, restano da godere la sublime figura del buffo rocker (il cantante Little Bob), l’incanto, alla Carnè, dei cuori canditi nel cielo azzurro, l’amore per gli ultimi (che, una volta, nel cinema di Kaurismaki, andava dimostrato). Un lieto fine che ha spiazzato molti.