TRAMA
Un soldato sta tornando al campo base dopo una missione, ma inavvertitamente poggia il piede su una mina antiuomo. Non può più muoversi, altrimenti salterà in aria. In attesa di soccorsi, dovrà sopravvivere non solo ai pericoli del deserto, ma anche alla terribile pressione psicologica.
RECENSIONI
Mike è un tiratore scelto del corpo dei marines, in missione segreta nel deserto assieme al collega Tommy con l’obiettivo di uccidere un terrorista. Ma quando arriva il momento di passare all’azione qualcosa va storto, una tempesta di sabbia li disorienta e i due si ritrovano persi nel deserto, isolati dal comando. Vagando fra le dune entrano a loro insaputa in un campo minato: Tommy salta immediatemente in aria, Mike mette il piede su una mina e rimane bloccato. Senza la possibilità di muoversi per non far scattare l’ordigno, solo nel mezzo del deserto per due giorni e due notti in attesa dei soccorsi, dovrà fare appello a tutta la propria forza fisica e mentale per sopravvivere.
Mine è un’ambiziosa opera prima italiana che osa pensare (e produrre) oltre gli schemi tipici del cinema nostrano, in particolare quello, produttivamente timido, degli esordi. Questa intraprendenza è il merito più evidente di un progetto pensato in termini squisitamente internazionali, con una produzione tripartita fra Italia, Stati Uniti e Spagna. Altra ambizione, di per sé non disprezzabile, è quella di costruire un film-sfida, caratterizzato da un’assoluta fissità spaziale, sulle orme del Buried di Rodrigo Cortés e, volendo, del più recente Locke di Steven Knight. Ma, per gli elementi narrativi combacianti, è necessariamente il No Man’s Land di Danis Tanovic (anch’essa un’opera prima) il paragone immancabile. Ma, al contrario di Tanovic, nel progetto di Guaglione e Resinaro la dimensione politica è completamente assente così come quella storica (se non per qualche innocuo riferimento al terrorismo arabo). Storia e politica vengono piuttosto sostituite da spettacolarità e velleità psicoanalitiche. Riguardo la prima istanza, la direzione dei registi è sicura, se non addirittura notevole nei primi venti minuti, di gran lunga la sezione miglior dell’opera. Il film comincia a scricchiolare e finisce per collassare su se stesso quando la deriva psicoanalitica prende infine possesso del gioco, costringendo la narrazione ad appiattirsi in un andirivieni di flashback che chiosano su un passato traumatico per costruire metaforicamente il presente (una poco sorprendente storia di violenza famigliare, l’incapacità del protagonista di agire allora rappresentata ora dall’impossibilità di muoversi dalla mina). Rimane la sensazione di un film con qualche minuto di troppo, energizzato da un’ambizione positiva probabilmente sprecata in un labirinto di specchietti freudiani di scarso interesse. Rimane la buona performance di Armie Hammer e la curiosità per un duo registico che, con la guida di una giusta sceneggiatura, potrà forse regalarci sorprese future.