
Nel 1977 Holden Ford, negoziatore dell’FBI, collabora con l’agente Bill Tench del reparto scienze comportamentali e con la professoressa Wendy Carr, per studiare una nuova tipologia di assassino (il killer seriale) e un nuovo metodo di indagine, la profilazione.
Scrivendo di The Place di Genovese, tratto dalla serie Booth at the End, dicevo della tendenza contemporanea a puntare l’attenzione sulla narrazione orale (si pensi, tra le serie, a In treatment, 13 e a The OA), con tutto il portato di ambiguità sotteso a questo tipo di esposizione dichiaratamente soggettiva dei fatti. Anche in Mindhunter la sostanza è il racconto (non a caso i titoli di testa mostrano in dettaglio bobine e microfono di un registratore, il raccoglitore delle esposizioni orali): la materia incandescente non sta nelle immagini, ma nelle parole. Siamo dalle parti di Thomas Harris che, coi dialoghi tra investigatore e Hannibal Lecter, ha inaugurato un genere e un modo di guardare al serial killer non come uomo di azione, ma come uomo di parola e pensiero. In cui la chiave di volta non è tanto constatare cosa fa l’assassino, quanto capire come ragiona. Mindhunter si concentra su questo aspetto e sul lavoro di persuasione che i tre protagonisti esercitano sull’FBI per convincere il Bureau della bontà del loro operato, per imporre un metodo ragionato nella trattazione dei casi (con attenzione all’emergere di schemi), una procedura volta alla prevenzione più che alla repressione. Si narra, insomma, la storia della nascita del profiling (stiamo assistendo alla composizione di un testo di studio) in un’epoca in cui la figura dell’assassino seriale non è stata ancora istituzionalizzata, né l’espressione serial killerconiata: l’invenzione della formula è il vero evento clou della prima stagione (e non è un caso che Psycho Killer dei Talking Heads, che ascoltiamo, dati proprio 1977).
In Mindhunter si costruisce il flusso narrativo sul ragionamento, sulla ricognizione delle psiche tormentate, attenendosi a una dimensione fondamentalmente realistica: stiamo parlando di figure che, per quanto fittizie, si ispirano a personaggi storici (in primis l’investigatore John E. Douglas), gli stessi a cui fece riferimento proprio Thomas Harris nei suoi romanzi dedicati a Hannibal Lecter.
Dopo aver elevato il serial killer a feticcio – un feticcio agitato, esaminato e applicato in ogni modo – il tassello che mancava a David Fincher (che è il motore anche produttivo della serie) era la ricostruzione scientifica della figura principe della sua opera. In questo senso Mindhunter può suonare come una sorta di prequel poetico.
Com’è sua abitudine, Fincher, fin dall’inizio (i primi minuti della prima puntata), delimita il campo e chiarisce i presupposti: la questione dei serial killer verrà affrontata da un punto di vista essenzialmente teorico, partendo dalla constatazione delle sue logiche comportamentali (il comportamento riflette la personalità). Se la situazione politica (il post-Vietnam) è nebulosa e incerta, il crimine, riflettendo la società, muta di conseguenza: così Holden (Jonathan Groff, il vero protagonista) capisce che essere al passo coi tempi, aggiornarsi, è fondamentale e che del criminale è decisivo sondare le motivazioni, cosa fa scattare i suoi impulsi omicidi, qual è il suo retroterra familiare e culturale, che tipo di esperienze ha vissuto. Ribadisco, tutto questo è già presente nel primo quarto d’ora: in esso si susseguono la scena dell’uomo che minaccia un ostaggio, il senso di colpa di Holden dopo il suicidio del primo, il corso che il detective tiene, l’interesse del giovane per la lezione che si svolge nell’altra aula, l’incontro di Holden con colei che diverrà la sua ragazza e il loro dialogo nel locale (l’inizio di The Social Network ha la stessa funzione di esposizione programmatica).
Mindhunter rappresenta l’alba di una rivoluzione, la storia dello scontro tra una prassi consolidata e la necessità di rivederla, di puntare su una rifondazione sistemica della casistica omicida.
L’intelletto vince sull’azione, in Mindhunter: così i casi concreti (a ogni tappa del tour dei penitenziari ne salta fuori uno – implicazioni con il territorio e la polizia locale -) sono sullo sfondo e quando emergono in primo piano servono a far procedere il discorso principale, ovvero la necessità per il terzetto di proseguire nel suo lavoro, nonostante le resistenze e le difficoltà opposte dal Bureau.
Tutto qui? No, perché David Fincher usa il territorio delimitato (quello della teorizzazione della figura dell’assassino seriale) come una scacchiera in cui si tiene una partita tra criminale e investigatore. E dove il serial killer si muove, strategicamente, come l’investigatore, ragionando con le categorie di quella stessa scienza che va a scaturire dalle conversazioni. La parte analizzata, per quanto consenziente, più o meno costretta dalle circostanze, sembra abbandonarsi allo scavo, ma, in realtà, volutamente o inconsciamente, tende a rispondere all’esercizio di quel potere di controllo con una dialettica che finisce col sovvertire lo stato delle forze in campo. Se chi indaga cerca di trovare delle affinità con il suo interlocutore, un campo comune che porti all’instaurazione di un clima di confidenza e fiducia, a predisporre una retorica che approcci l’interlocutore in modo non convenzionale e che, rompendo i rituali, spinga l’interrogato ad aprirsi, in quel campo comune così delimitato egli stesso rischia di perdersi.
Prendiamo quella che è la figura più affascinante di questa prima stagione, il criminale Ed Kemper: il detenuto è un trattato vivente che spiega come funziona una mentalità omicida e, come Hannibal Lecter, conosce la psichiatria e il gergo clinico, analizza i fatti e sa autoanalizzarsi, quindi è sempre in grado di influenzare il suo interlocutore, di portarlo dove vuole, essendo del tutto autoconsapevole. I due investigatori si dividono tra repellenza e fascinazione: Bill (la praticità) è in allarme, Holden (l’idealismo, l’entusiasmo) perde il distacco, Wendy (la razionalità) invita al rigore e al rispetto dei limiti che ci si è imposti.
Holden, azzarda e finge, mente o, paradossalmente, racconta delle verità che lo riguardano («Quid pro quo. I tell you things, you tell me things» diceva Lecter, che pretendeva aneddoti personali per legare a sé e coinvolgere su un piano emozionale Clarice Starling) e mentre crede di avere la situazione in mano e di inquadrare il serial killer, ne viene manipolato. Quanto sottilmente pervasivo sia il veleno mentale inoculato dalle parole di questi serial killer ce ne accorgiamo guardando quello che accade nella vita privata dei protagonisti e nelle loro relazioni intime.

Lasciando che lo spettatore affondi lentamente nelle stesse sabbie mobili in cui si dibatte l’identità dei protagonisti, la serie mette dunque in scena il confronto dilaniante dell’individuo con il proprio lato oscuro, risvolto, quest’ultimo, di una delle centrali riflessioni dell’opera fincheriana tutta: l’uomo immerso in un contesto sociale che finisce per assorbirne (e subirne) le caratteristiche.
MANHUNT: UNABOMBER
Fa d’uopo in questa sede segnalare velocemente anche Manhunt: Unabomber (voto: 7), una produzione Discovery Channel, creata da Andrew Sodroski, Jim Clemente e Tony Gittelson, che narra della caccia a Unabomber, catturato grazie al profilo stilato dall’agente FBI Jim “Fitz” Fitzgerald. Di scrittura meno sofisticata (ma con un denso e sfumato rilievo dato al confronto tra le visioni del mondo del detective e del criminale – in filigrana c’è la dialettica tra libertà e controllo nell’era tecnologica – e al ruolo della stampa), registicamente più ordinaria (ma c’è, verosimilmente, anche un budget meno importante), la serie presenta una struttura non lineare e più ardita, snodandosi secondo due livelli temporali paralleli: nel primo, anteriore, vediamo le indagini; nel secondo l’arresto di Ted Kaczynski è già avvenuto e si illustra il cammino verso il processo. Un’intera puntata è poi dedicata alla storia della vita di Unabomber. Al di là del tono riflessivo che caratterizza entrambe le serie, quest’ultima mostra come le intuizioni che nel campo si ebbero negli anni 70 abbiano condotto a un sostanziale cambio di passo nella trattazione della casistica (qui siamo nei 90), pur nella sostanziale diffidenza delle istituzioni sulle metodologie utilizzate.
Se la scrittura della serie presenta alcuni scivoloni (il modo in cui viene risolta la figura del detective protagonista, ad esempio) può contare però su una delineazione molto sottile della figura del criminale. Di Ted Kaczynski viene ben ricostruita la storia e le motivazioni, lo spettatore è messo nelle migliori condizioni per comprenderlo e questo in una prospettiva che è agli esatti antipodi del consueto schema del fascino perverso che ogni villain che si rispetti emana.
Al di là delle ovvie differenze, colpisce come quello del criminale seriale sia un tema accompagnato da costanti ineludibili:
– Il profiler come pioniere geniale e incompreso.
– Il conflitto con l’establishment con conseguente lotta per imporre le proprie idee e i propri criteri.
– Miscuglio di realtà (anche psicologiche) e finzione (come in Mindhunter, la figura di Fitzgerald è la sintesi romanzata di vari personaggi storici, compreso il già citato John E. Douglas, primo profiler di Unabomber).
– Importanza dei segni e delle marche del linguaggio.
– Affinità di spirito, implicita identificazione e mutuo riconoscimento (con conseguenti ammirazione e rispetto) tra chi investiga e chi viene indagato.
– Decisivo faccia a faccia tra l’uno e l’altro.
– Protagonista consacrato alla sua missione fino all’ossessione («Lo conosco come conosco me stesso» dice Fitz di Unabomber).
– Perdita dei valori di riferimento e di una visione d’insieme della realtà con conseguente devastazione della vita privata dell’investigatore.
Proprio per queste caratteristiche il format della serie pare attagliarsi molto bene al tema: serialità criminale (in cui ogni nuovo delitto aggiunge informazioni ed elementi di valutazione) e televisiva (ogni puntata fa la stessa cosa mostrando in parallelo l’evolversi del percorso umano del detective) sembrano andare naturalmente a braccetto.