TRAMA
Yusuf, appena diplomato, non riesce a superare il test di ammissione all’università. Scrivere poesie è la sua più grande passione e alcune sue liriche vengono pubblicate in diverse, quanto oscure, riviste letterarie. Il futuro del giovane e della madre Zehra è insicuro: si mantengono con l’incerto commercio del latte che producono. Yusuf rimane sconcertato nel momento in cui viene a sapere della relazione segreta di Zehra con il capostazione della città.
RECENSIONI
Negli ultimi anni il cinema turco è tornato a far parlare di sé confermando alcune costanti sia tematiche che stilistiche: la cura del coté figurativo, la predisposizione al simbolo, l'elevazione del racconto a punto di osservazione della realtà del Paese. Milk in tal senso è un film esemplare: l'incipit è avulso dal resto (l'estrazione di un serpente dal ventre di una donna) ma, a partita chiusa, diviene chiave di lettura del narrato; la rappresentazione degli ambienti restituisce un ritratto delicato, non privo di sfumature, che, raccontando del protagonista, riesce a dire anche della condizione di una comunità rurale, con la sua cultura, le sue tradizioni, le sue superstizioni, in una regione dell'Anatolia in rapida trasformazione (il conflitto tra la modernità e la tradizione costituisce il fulcro tematico del film); l'attenzione al dettaglio umano (i gesti, gli sguardi sono registrati quando non sottolineati) portano a galla la centralità del rapporto tra madre e figlio che, nelle sue dinamiche, assume palese valore metaforico della relazione tra le nuove generazioni turche e la Madre Patria; l'aspetto compositivo dell'immagine sempre curato e consapevole (a volte un po' affettato) raggiunge momenti di vertigine pittorica assolutamente rimarchevoli. Kapanoglu spesso si impantana e si compiace di certi ermetismi un po' gridati e anche il ritmo ne risente, ma a conti fatti l'opera (secondo capitolo di una trilogia dedicata al personaggio di Yusuf – il primo capitolo si intitolava Egg; seguirà Honey -) ha più meriti che difetti.

Incomunicabilità d’autore
Non deve essere facile coltivare una velleità artistica in un ambiente rurale. Prova a dimostrarlo il turco Semih Kaplanoglu attraverso l’esperienza del giovane Yusuf, lattaio ispirato che vive con la madre ai margini del fermento cittadino. Per lui l'arte, nello specifico la poesia, offre la possibilità di fuga da un destino che sembra già scritto. Dopo una prima parte in cui si cerca di riempire di significato i lunghi silenzi del protagonista (Melih Selcuk, un Riccardo Scamarcio dell'est), provando a dare un senso alla sua incapacità di comunicare se non attraverso la forma poetica (con quali risultati, però, non ci è dato saperlo perché i suoi testi vengono letti da altri ma non al pubblico), il film cade a perpendicolo nei cliché delle pellicole da festival (silenzi, ritmo lasco, allusioni che non portano a niente) e si chiude a riccio nella propria impenetrabilità. Punto di rottura tra un percorso già visto ma apprezzabile, se non altro per l'ambientazione che cerca di mettere a fuoco il contrasto tra il progresso delle città e l'immobilismo delle zone di campagna, e l’assoluta astrusità è l'imperdonabile svolta epilettica, con l'incidente in sidecar del protagonista. Da quel momento in poi si sprecano le metafore attraverso un serpente in casa (il sesso tornato a pulsare nella nuova relazione della madre?), un pulcino abbandonato (il figlio che non riesce ad accettare l'indipendenza della figura materna?) e un enorme pesce gatto (boh!), fino a un accecante (SIC), ma non certo illuminante, finale. Il rischio, tutt’altro che arginato, è per il regista quello di parlare più che altro a se stesso. Si tratta della seconda parte di una trilogia che percorre a ritroso la vita di un poeta, passando dall'età adulta all'infanzia. Il primo capitolo, girato nel 2007, si intitola Yumurta, mentre il segmento finale, Bal, è già in fase embrionale.
