
TRAMA
Frustrato sceneggiatore americano prossimo al matrimonio giunge a Parigi in cerca d’ispirazione per il suo primo romanzo.
RECENSIONI
Dopo anni di spudorato e triste riciclaggio di temi e figure, con Midnight in Paris Woody Allen tematizza infine la genesi di una separazione, e la conseguente irreversibilità di una crisi: quella tra l’artista e il “suo” tempo, tra il narratore e la contemporaneità. Con l’intermediazione simbolica del protagonista Gil, sceneggiatore hollywoodiano (un Owen Wilson che “alleneggia” come d’uopo), il regista confessa a chiare lettere la sua impotenza ed incapacità di parlare del presente, di essere nel presente; ammette l’inattualità del suo discorso, la rivendica, la ostenta. Fin da subito.
Allen ignora cosa sia la “vera” Parigi, e non lo nasconde, così come ha da sempre ignorato il Bronx di New York e, più recentemente, Mestre e i sobborghi di Londra. Chi rimprovera all’autore di Io e Annie un’eccessiva idealizzazione cartolinesca della città, accusandolo contestualmente di gettare uno sguardo esotizzante sulla ville lumière, ha probabilmente dimenticato i primi minuti di Manhattan. L’incipit di Midnight in Paris replica, infatti, testualmente (cosa che oramai il regista ha l’abitudine di fare) la sequenza d’ambiente che apriva il film del 1979: una serie di inquadrature componenti un mosaico inevitabilmente parziale e idealizzante della città. E’ un atto d’amore che, alla maniera delle ricostituzioni d’epoca “amorose”, sublima, trasfigura e denatura l’oggetto venerato, modellando uno spazio visibile (i primi arrondissements di Parigi, le tracce di un passato “sublimabile”) che rigetta nell’invisibilità lo spazio marginale (la seconda decina di arrondissements, i segni di un presente non idealizzabile).
Se nelle sue ultime, faticose opere del regista, l’unico passato dal quale attingere pareva essere il suo (la sua filmografia), in Midnight in Paris il passato nel quale vivere e dal quale continuare ad attingere è storico. Allen, in un certo senso, mette en abyme l’impasse, ritornando alle fonti di cui la sua cinematografia alta costituirebbe la filiazione ideale e rivendicata. Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni segnalava l’impossibilità di andare avanti se non ripiegando narcisisticamente. Midnight in Paris manifesta, invece, la necessità di tornare indietro anche per giustificare l’impossibilità di andare avanti; un avanzare regredendo che segna un mutamento strutturale: dalla stasi, occultata da un dinamismo geografico degno di Jules Verne, all’apertura di una faglia temporale. Allen rinverdisce così il realismo magico de La rosa purpurea del Cairo – la salita sull’auto d’epoca allo scoccare della mezzanotte e il “naturale” salto nel tempo ricordano, a contrario, l’uscita dallo schermo dell’eroe funzionale e l’interazione di più livelli della Rosa – e riesce, spiazzando tutti, a rinvigorire un cinema oramai esangue. Da patetico e triste, il gioco diviene qui tragico e struggente, grazie soprattutto alla breccia temporale e alle figure che popolano questo allucinato simulacro, storiche (Hemingway, Buñuel, Dali e i suoi rinoceronti, Gertrud Stein) e non, come l’Adriana di Marion Cotillard. Quest’ultima permette all’autore di dilatare e approfondire la dimensione tragica dell’inattualità. Ogni epoca è destinata a rimpiangere il passato remoto o prossimo, come si evince dalla sequenza migliore del film, sorta di breccia nella breccia, in cui Gil e Adriana saltano dagli anni ’20 alla Belle époque, tempo in cui la donna deciderà di rimanere. Della serie: amiamo ciò che non conosciamo, amiamo la distanza che ci separa dall’oggetto da contemplare e da “vivere”, almeno fino a quando quell’oggetto resterà inattingibile. La storia d’amore tra Gil e Adriana, appena abbozzata, è certamente l’elemento più accattivante e ambiguo del film. L’ambiguità è dovuta al carattere sottilmente incestuoso della loro relazione: lo sceneggiatore Gil, figlio o nipote dell’epoca nella quale sogna di vivere, si innamora di una delle figure esemplari di quell’epoca...
La parte ambientata in un “oggi” assolato e mesto, corretta e sicuramente più brillante degli ultimi lavori, non vale comunque gli squarci autenticamente surreali sul e nel passato; i personaggi sono più scontati, le dinamiche narrative più ovvie e risapute. Ma è un peccato veniale. Il presente è, infatti, puramente funzionale alle “aperture” oniriche e diacroniche, queste ultime danno senso e sostanza al primo. Nel finale, Gil, abbandonando il folle sogno di fuga, formula un compromesso che gli permetta, per quanto possibile, di trasfigurare, proprio come il regista, anche il presente: un barlume di speranza (e di sopravvivenza) nella messa in scena di un incontro inverosimile tra due solitari “inattuali”, sotto la pioggia.
Il cast, corretto, si segnala per l’inutilità di alcune presenze (Carla Bruni, sulla cui imbarazzante marginalità il sottoscritto ha una teoria di cui, per carità di patria, non preciserà i termini in questa sede) e per la bella riuscita di altre: dalla struggente ed hemingwaiana (nel senso di Ernest) Cotillard alla raggiante e hemingwaiana (nel senso di Mariel) Léa Sedoux.

Record d’incassi per Woody Allen negli States (forse dovuto ad un’inedita vena poco pessimista): è un autore sempre più uguale a se stesso che sforna film con troppa facilità, a volte talmente leggeri da essere inutili, ma in questo caso la semplicità è delizia. Nel suo tour europeo, dopo averla sfiorata in Tutti Dicono I Love You e Ciao Pussycat, sceglie Parigi (dichiarandole amore in modo anche sperticato, a partire dai copiosi minuti iniziali con cartoline da carosello) per spaesare l’alter ego, un Owen Wilson davvero in parte (più di quanto sarebbe stato Allen stesso), grazie allo sguardo triste e romantico. Il suo Gil, cenerentolo raccolto intorno a mezzanotte da una carrozza, viene trasportato in un mondo da favola, mentre il demiurgo Allen lavora sull’osso classico del triangolo amoroso, con variante non da poco: “l’altra”, infatti, è la musa dell’Arte (e ogni artista s’innamora perdutamente di Adriana-Marion Cotillard) e, probabilmente, alla sua veneranda età, il regista è convinto che il suo Cinema sia l’unico e coerente amore della propria vita. Nessuna grave ponderazione, però, inficia un’opera che, cuori a parte, vive soprattutto della divertita, pop-colta, caricaturale-puntuale presentazione continua di personaggi illustri: da Hemingway (il più riuscito) a Dalì, da Picasso ai Fitzgerald. Piccolo colpo di genio: il viaggio nel tempo nel viaggio nel tempo, che trasporta alla Belle Epoque e rivela che anche la Musa è nostalgica del passato, che anche lei (l’Arte?) può sbagliare.
