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Michael Mann: La persecuzione degli spazi. Il Senso che svanisce

A partire dalla fine degli anni ’40 e per tutta la seguente decade il western è certamente il genere cinematografico più frequentato dall’industria hollywoodiana. La produzione precedente era stata prolifica ma aveva d’altro canto subito un arresto con la Seconda Guerra Mondiale; in quegli anni di propaganda ed appoggio dello sforzo bellico la memoria della fondazione e le dinamiche drammaturgiche proprie del w. vennero integrate rapidamente in tutt’altro tipo di film (si pensi alla difesa del Pacifico ed alla vita sulle navi). Un esempio calzante in tal proposito è”Il Sergente York” di Howard Hawks in cui il solitario vero americano (un devoto campagnolo) mette al servizio della patria la propria abilità di tiratore scelto.
Con la fine del conflitto le forze così ben imbrigliate in precedenza e l’emergere di una nuova condizione mondiale (i.e. la guerra fredda) oltre che interna agli Stati Uniti (il definitivo tracollo della dottrina Monroe), il Breen Office e Will Hays si incaricano di una nuova recrudescenza restrittiva circa l’applicazione del Codice di Regolamentazione dello MPPDA ed il western conosce la sua stagione di maggior gloria dimostrandosi, oltretutto, perfetto veicolo per l’astrazione, campo aperto alle potenzialità metaforiche dei propri percorsi canonici. Certo gli anni del New Deal avevano influenzato la produzione cinematografica anche nei temi ma ora la realtà contemporanea pare esclusa, eppure l’incontro tra alcuni fattori congiunturali, le personalità del mestiere cresciute negli anni ed una nuova generazione di interpreti ed autori conduce a risultati in cui la carica politica ben evidente al di sotto della patina del prodotto confezionato. Diversamente da quanto accade con i fiammeggianti melodrammi dell’epoca in cui ambientazione e carico simbolico premono con violenza contro i rigori del Codice e l’ondata di ottusità anti-comunista e anti-intellettuale che accompagnò McCarthy e ben oltre il fenomeno che da questo prende nome.
Questi sono anche gli anni in cui l’ingenuità che era stata propria delle principali produzioni western degli anni ’20 e ’30, quella che aveva dato spazio ad eroi seriali a cavallo, arriva in televisione. The Cisco Kid, The Lone Ranger, The Roy Rogers Show, Wild Bill Hickok per tutti gli anni Cinquanta affascinano i telespettatori, ben prima di quell’enorme fenomeno popolare che sarebbe stato Bonanza: la società che si costruisce.
Procedendo in questa linea d’indagine ci preme evidenziare i momenti iniziali della rottura di cui parliamo più sopra e individuare un esempio che serva di giustificazione e contraltare al percorso interpretativo che intendiamo intraprendere circa tre film di Michael Mann.
Se già nel 1943 Howard Hughes aveva platealmente sfidato la lega dei produttori e distributori con lo scandaloso Il Mio Corpo Ti Scalderà (The Outlaw) con Jane Russel, Thomas Mitchell e Walter Huston, segnando inevitabilmente le linee di condotta dei filmakers americani, con gli ultimi due anni del decennio il fenomeno, senza tali eclatanti scosse al sistema, raggiunge una indiscussa maturità. Sono gli anni, per intenderci, di Il Tesoro della Sierra Madre di John Huston, Fiume Rosso di Howard Hawks, Notte senza Fine di Raoul Walsh e delle prime due parti della Cavalry Trilogy di John Ford: Il Massacro di Fort Apache e I Cavalieri del Nord Ovest.
Senza alcun dubbio inizia qui il periodo più noto e citato, per certi versi la classicità del western prima dell’esaltazione auteurist.
A completamento di questa generica introduzione storica forniamo un brevissimo elenco, limitato ai casi ed alle personalità più note (e quindi più influenti? o sintomatiche d’una tendenza?) di film su cui abbiamo basato questo percorso, prima di evidenziare un’opera esemplare che ci aiuterà a colmare l’abisso che separa tutto ciò dal vero nucleo del nostro interesse, negli anni ’90
Robert Aldritch: L'Ultimo Apache (1954); Vera Cruz (1954); [L'Occhio Caldo del Cielo (1961)];
Budd Boetticher: Seminole (1953); Il Traditore di Fort Alamo (1953); I Sette Assassini (1956); I Tre Banditi (1957); Decisione al Tramonto (1957); Il cavaliere Solitario (1958); L'albero della Vendetta (1959); La Valle dei Mohicani (1960);
Richard Brooks: L'ultima Caccia (1956);
Delmer Daves: L'amanta Indiana (1950); Il Figlio del Texas (1952); L'Ultima Carovana (1956); Quel Treno per Yuma (1957); Cowboy (1958); L'albero degli Impiccati (1959);
Edward Dmytryk: La Lancia che Uccide (1954); Ultima notte a Warlock (1957);
John Ford: (oltre ai citati) La Carovana dei Mormoni, Rio Bravo (1950); Il Sole Splende Alto (1953); Sentieri Selvaggi (1956)
Allan Dwan: Il Cavaliere Implacabile (1954)
Samuel Fuller: Ho ucciso Jesse il bandito (1949); Quaranta Pistole (1957); La Tortura della Freccia (1957);
Howard Hawks: (oltre ai citati) Il Grande Cielo (1952); Un Dollaro d'Onore (1959); 
John Huston: La Prova del Fuoco (1951); Gli inesorabili (1960); [Gli Spostati (1961)]
Fritz Lang: Rancho Notorius (1952);
Anthony Mann: Le Furie (1950); Il Passo del Diavolo (1950); Winchester '73 (1950); Là Dove scende il Fiume (1952); Lo Sperone Nudo (1953); Terra Lontana (1955); L'Ultima Frontiera (1955); L'Uomo di Laramie (1955); Il Segno della Legge (1957); Dove la Terra Scotta (1958); Cimarron (1960);
George Marshall: Il Giuramento dei Sioux (1952); La Legge del Più Forte (1958)
Robert Parrish: Lo Sperone Insanguinato (1958);
Arthur Penn: Furia Selvaggia (Billy the Kid) (1957);
Nicholas Ray: Johnny Guitar (1955); All'ombra del Patibolo (1955); La vera storia di Jess il bandito (1957)
George Stevens: Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953); Il Gigante (1956);
Andrè de Toth: Lo Straniero ha Sempre la Pistola (1953); Il Cacciatore di Indiani (1955); Notte senza Legge (1959);
Jacques Tourneur: Wichita (1955);
King Vidor: L'Uomo senza Paura (1955);
Raoul Walsh: Sabbie Rosse (1951); Gli Implacabili (1955); [Far West (1964)]
[N.B.] Pare evidente che sia lecito obiettare su un ordinamento "per regista" e non per studio di produzione o per attore (e relativi contratti) ma è certo il modo più semplice per spiegare ai giorni nostri quale fosse la tendenza; tanto più che ci siamo limitati ai casi più noti e facilmente reperibili. Per maggiore completezza bisogna ricordare che questo è il periodo della grande produzione di romanzi d'ambiente cowboy, al pari di quella dei polizieschi, gialli e noir. Siamo consapevoli di aver escluso, procedendo così, pietre miliari ed episodi di indiscutibile valore, storico ed estetico ma riportando l'attenzione al breve elenco se ne noterà la coesione e la vicinanza, in più si consideri che questi sono i film che hanno ancora un'eco, e che spesso costituivano la seconda parte di una double feature, dei film mandati per primi, di uguale genere ma prodotti nella cosiddetta Poverty Row, è difficile da qui, ora, rintracciare me moria.Tra i precursori di questo fermento è necessario almeno ancora ricordare "Redskin" di Victor Schertzinger (1929), "Il vendicatore di Jess il Bandito" di Fritz Lang e per certi versi "Alba di Gloria" di John Ford (t.or. Young mr. Lincoln, 1939, lo stesso anno di Ombre Rosse).

Nel 1955 King Vidor diresse il suo ultimo western, "L'uomo senza paura" (The Man Without a Gun), con Kirk Douglas, anche produttore. Il protagonista, Dempsey Rae è un vagabondo che attraversa solitario le distese americane, da Est ad Ovest; il suo obiettivo non è fare fortuna né trovare una città accogliente né sfuggire alla legge, è in fuga sì, ma dal filo spinato. Dempsey evita ogni forma di stanzialità a causa di qualcosa avvenuto nel suo passato e tutto pare legato, appunto, al barbed wire la cui inesorabile comparsa lo segue come un ombra, spietato almeno quanto l'automobile che schiaccia il vecchio Cable Hogue nel film di Sam Peckinpah (The Ballad of Cable Hogue, 1970).
La Recinzione nel mondo anglosassone ha svariate ricorrenze, a partire dal fenomeno delle enclosure che segnarono l'evolversi della società del Regno già sotto Elisabetta I, fino almeno – fatte le debite distinzioni – alla Roo Fence (Kangaroo Fence, barriera dei canguri che ai giorni nostri segna l'outback australiano). Negli Stati Uniti in particolare insegue lo sviluppo verso occidente dell'invasione dell'uomo bianco: le gare per occupare le terre prive di proprietà (Cimarron di G. Marshall, Cuori ribelli di Ron Howard, 1992) e quindi il sezionamento operato dalla proprietà privata, un istituto alle soglie della sacralità nell'ideologia del pioniere, hanno come correlato oggettivo proprio le linee tracciate dal filo metallico (mentre ad esse, trasversali ed aeree corrono le connessioni telegrafiche). Già Tom Dunson (John Wayne) in Fiume rosso deve affrontare la rivendicazione dei possedimenti ed a colpi di pistolettate segna un passaggio epocale, la fine del libero transito da cui egli stesso proviene. A distanza di quasi Sessanta anni la prima insegna di un nascente centro abitato inquadrato da Kevin Costner in Open Range (t. lett.: pascolo aperto) è proprio Barbed Wire ed i protagonisti dovranno fare i conti ancora una volta con un proprietario locale (Michael Gambon) per nulla disposto a tollerare mutamenti d'equilibrio. "E' cosa nota che l'Ovest si fonda storicamente in senso ideologico su presupposti di carattere espansionistico e colonialistico. Si tratta, del resto, dei presupposti stessi che presiedono alla nascita dell'America come colonia europea prima ancora che come nazione. Gli Stati Uniti cioè hanno trovato nell'Ovest la figura ideologica del loro "destino storico", una progressione orizzontale che è la cifra di una concreta marcia ideale della nazione".

Dempsey Rae è il fiero relitto di un'epoca (come Costner e Duvall) ed il suo vagabondare avviene nel momento in cui i pionieri si sono trasformati in agricoltori, possidenti e lavoratori, i pascoli per le mandrie nomadi stanno scomparendo: quel tempo di pace e libertà seguito alla Guerra Civile in cui gli uomini avevano riacquistato al possibilità di muoversi alla ricerca delle migliori opportunità è giunto al termine. Lo straniero che arriva in città (si faccia caso alla condizione della cittadina in cui giunge "Lo Straniero Senza nome" di Eastwood, 1975) è guardato sempre più di cattivo occhio, una fonte di guai che non partecipa, né comprende, la vitamoderna.
Il filo spinato, dicevamo, compare con grande frequenza nei western del periodo come in quelli a seguire, non si contano le scene in cui gli ormai ex-coloni stendono, riparano od acquistano questo strumento della loro quotidianità, fondamentale per la definizione della sudata proprietà o debbono difendersi da rissosi possidenti in caccia di un nuovo appezzamento ("Il Cavaliere della Valle Solitaria" di G. Stevens). Quest'ultimo costituisce il polo negativo del sistema drammaturgico ed ha come obiettivo l'istituzione di un monopolio, l'estensione del potere personale su una terra che si perda all'orizzonte tra i capi di longhornsprima ed i pozzi di petrolio poi. Di fatto, però, questo è il destino, ben noto a generazioni di spettatori, che attende quei luoghi, e proprio l'insistenza sull'elemento anacronistico costituisce il nucleo politico che da un lato diverrà stereotipo della vulgata del sogno americano, la volontà individuale (e il self made man ) e dall'altro fornisce il destro a "soluzioni personali" come quella che troveremo nei film di Michael Mann, nell'ultimo decennio del Novecento.
Kirk Douglas, per l'appunto, interpreta un personaggio sconfitto dalla storia e dai suoi stessi fantasmi, in fuga di fronte al mutamento che lo circonda; altrove è stato un mandriano, uno sgherro al servizio di qualche padrone ma, nel piccolo centro in cui si trova, la pietà (altro fondante topos: la pietà dell'eroe solitario, predestinato), lo porta a schierarsi dalla parte dei deboli contadini contro le selvagge recinzioni della ranchera Reed (Jeanne Crain): nonostante l'amicizia per un altro giovane spiantato (un legame simile coinvolge ancora Kirk Douglas in "Il Grande Cielo" di Hawks) e le offerte fattegli dagli abitanti, pur avendo ottenuto un successo, non riesce ad adeguarsi alla vita stanziale finendo per allontanarsi, nuovamente solo, fin dove le terre si spingono ad Ovest.
Come Shane (Alan Ladd in "Il Cavaliere della Valle Solitaria"), Dempsey va dritto incontro al nulla, non ferito a morte ma quasi del tutto piegato dal peso di ideali che hanno ormai smesso d'avere una realtà su cui poggiare.
La Rottura del continuum naturale viene quindi celebrato come sintomo della civilizzazione, le barriere come le case e poi i grattacieli sono verticalità che sanciscono il successo dell'umano ma pure come ambiguo mutamento della condizione sociale in cui la necessità di adattamento produce discontinuità culturali (non solo l'emarginazione dei Nativi, visti come puro arredo continentale). E' il trionfo della volontà individuale, della Fortuna piegata ma il simbolo qui designato, il barbwire, sta per stanzialità come per sfruttamento intensivo, sanzione dell'innesto nella natura fino ad allora indifferenziata e comune di dinamiche umane di potere, possesso, denaro, sopraffazione, povertà, messa a morte. Sintomo di una nuova fondazione umana, della necessità di una ricontrattazione, anche violenta, un processo che ben lungi dal sanarsi nell'epos fondativo continuerà a segnare la vita metropolitana. 
William Munny ne "Gli Spietati" tenta di difendersi con l'isolamento quasi utopistico nella sua vecchiaia, almeno quanto la su condizione di brigante (outlaw, come "Il texano dagli occhi di ghiaccio" t. or. "The Outlaw Josie Wales", 1976) negli anni giovanili lo escludeva dal mondo: le dinamiche del mondo civile, per quanto poco civile, gli sono ignote; non si concede la vittoria personale nemmeno al tenente di Balla Coi Lupi che scorge una nuova possibilità – la tribù indiana – il cui destino è già segnato.
Nel corso degli anni è inevitabile che questo sistema di temi sullo spazio americano abbia subito varie mutazioni, si sia integrato; lo stesso genere, nonostante revival di varia portata formale ed ideologica, è stato assorbito, quanto a drammaturgia e topoi, nel fare cinema di più registi, è divenuto la filigrana, il blue print, che giace come sfondo di tutto il cinema d'intrattenimento d'oltreoceano. Per intenderci, esplicito è l'amore di John Carpenter per il western (e Hawks), evidente il debito di Top Gun (Tony Scott, 1986) per dirne uno.
"L'ultimo dei Mohicani", "Heat – La Sfida", "Insider – Dentro la Notizia" sanciscono negli anni ' 90 la fortuna internazionale di Michael Mann e forniscono la possibilità di costruire una unificazione tematica peculiare, applicabile, con adeguate estensioni e correzioni, alla sua intera filmografia.
Percepire lo spazio e l'ambiente sono gli unici mezzi di realizzazione per i personaggi manniani; l'azione ed il raggiungimento dell'obiettivo sono in costante confronto con la realtà in un percorso che si specifica in progressioni di fenomeni percettivi oltre che nelle scelte di messa in scena. 
Il metodo, dato il rifiuto di Mann per la parola stile, pur adattandosi di volta in volta, è costante, soprattutto in questi tre film, si tratta di coagulare ogni frazione del fare verso il progetto formalizzato: il lavoro con gli attori tale da permettere loro di compiere le azioni dei personaggi con il maggior grado di naturalezza e confidenza; i personaggi ricostruiti nei dettagli biografici; le location sempre reali od altrimenti ricostruzioni fedeli, la gamma di colori studiata nei rapporti ambientali e nelle relazioni tra personaggio e ambiente, etc. etc. Questi sono i punti fondamentali per strutturare il fictional world secondo le funzioni simboliche e significanti adeguate: di film in film tali da approssimarlo alla costruzione di ambienti fortemente connotati quasi si trattasse di theme parks, la diegesi si condensa attorno al suo strutturarsi nelle dimensioni vivibili, la dimensione temporale diviene una variabile dipendente dal progetto formale che la iscrive.
Per tematizzazione s'intende quindi la presenza di una tessitura significante fatta di ricorrenze o singole occorrenze più o meno rapidamente decifrabili e riconducibili ad un nucleo concettuale, sia che questo sia connesso a fattualità (parlando di parchi tematici: la presenza nel campo visivo di copie di personaggi di fumetti Disney è indizio valido per riconoscere Disney-world/land) sia si abbia a che fare con strutturazioni simboliche a base culturale od arbitraria. La costruzione di sistemi percorribili attraversate da una simile tematizzazione consente al regista di sfruttare al meglio mezzi tecnici a lui congeniali come la macchina a mano (spesso anche steadycam) attraverso cui aderire a punti di vista specifici, funzionali al completamento del percorso di senso: non solo i protagonisti, dunque, ma qualunque personaggio in una data situazione dimostri un atteggiamento di consapevole confronto con le regole dell'ambiente in cui è immerso. Ciò comprende, inevitabilmente, l'ampia gamma di establishing shots e totali che immergono l'umano ed il suo agire nel complesso della realtà (nel profilmico se preferite), sia essa una sezione di Natura sia, pure, la "giungla urbana".
La complessità dei percorsi d'interpretazione e lettura fa del luogo filmico una sorta di iperspazialità in cui la necessità di una ricezione raffinata della molteplicità di stimoli equipollenti è la condizione fondamentale per la realizzazione della volontà del personaggio, dell'individuo.
Un contributo utile a questa sorta d'interpretazioni può venire, vogliamo suggerire, dai concetti di layout, affordance e percezionesviluppati dalla psicologia ecologica ed in particolare da James J. Gibson in "Un approccio ecologico alla percezione visiva" (1979). Nell'introduzione all'edizione italiana (Il Mulino 1999) di Paolo Bozzi e Riccardo Luccio si legge: 

"la chiara ammissione che il mondo reale è proprio quello fenomenico, che le percezioni non veridiche non ci sono affatto, e che le "illusioni" sono tali solo grazie a certi animaletti speciali, come gli strumenti di misura, la riga, il compasso, il goniometro, costruiti da noi apposta per tener conto di un solo parametro e non di tutti gli altri che tuttavia costituiscono gli oggetti egli eventi" :

questi sono i componenti fondamentali del direct realism gibsoniano.
Prima di continuare a sfruttare queste intuizioni è forse meglio fornire alcune definizioni dello psicologo circa i termini sopra citati, specificando, se ancora non fosse evidente, che non è nostro interesse procedere ad una pedissequa applicazione dei medesimi né delle procedure di psicologia ecologica sulla cavia cinema - l'ultimo capitolo del saggio di Gibson, purtroppo solo un abbozzo, è dedicato al cinema – ma solo presentare queste categorie che potranno essere utili ai lettori per comprendere i nostri assunti.
Layout: "la conformazione dell'ambiente terrestre, o quel che si può chiamare layout […] è per qualche aspetto permanente, mentre è mutevole per qualche altro aspetto" (pag. 48 e sg.)
Affordance è il termine chiave dello studio gibsoniano, coniato dallo studioso a partire dal verbo "to afford". "Le affordance dell'ambiente sono quel che questo offre all'animale […], implica la complementarità dell'animale con l'ambiente. […] I diversi layout offrono diverse affordance per comportamenti differenti ai diversi animali, e differenti interazioni meccaniche […] i diversi oggetti dell'ambiente offrono diverse affordance per la manipolazione."
"Un insieme di affordance costituisce una nicchia, questa comporta un certo tipo di animale e l'animale un certo tipo di nicchia." "Un'affordance non è una proprietà oggettiva né soggettiva […] taglia trasversalmente la dicotomia tra oggettivo e soggettivo […] si indirizza in entrambe le direzioni, in quella dell'ambiente ed in quella dell'osservatore".
Percezione:"[…] la percezione di un'affordance non è un processo di percezione di un oggetto fisico privo di valori a cui il significato è qualcosa di aggiunto in modo su cui nessuno è in grado di concordare; […] la domanda fondamentale nella teoria delle affordance non è se queste ultime esistano e siano reali ma se nella luce ambiente è disponibile l'informazione per percepirle." 
"L'esterorecezione è accompagnata dalla propriocezione – percepire il mondo è co-percepire se stessi."

Se si procede ad una semplice simbolizzazione, astrazione, di quanto detto si può comprendere il nostro dire che cogliere le possibilità di azione (scorgere una sorta di luce ambiente nascosta ai più) è proprio solo di chi abbia il know how per governare il proprio movimento, anche inteso come direttiva etica, in termini gibsoniani sappia sfruttare le affordance che il mondo offre a qualcuno solo nella misura in cui costui percepisce sé stesso ed il complesso fenomenico che lo circonda in una dato istante, in una data situazione. Come spesso accade per i protagonisti di narrazioni filmiche (ma specialmente nei nostri casi) queste conoscenze sono legate ad esperienze personali pregresse, integrate con la personalità e la funzione nel mondo.
Quanto detto è più o meno ovvio per qualunque essere umano, dotato di un'unica prospettiva fisica (ottica) sul mondo, il film – il cinema, per quel che conta – mette in atto l'incontro contemporaneo di più angoli di visione con il conseguente moltiplicarsi delle prospettive. Non solo soggetto percipiente ed oggetto (o narrazione) ma il complesso di spettatore – personaggio del fictional world (o l'insieme del fictional world) – retorica narrativa essendo quest'ultima non solo una presa di posizione su quello che si può chiamare profilmico ma pure funzione dei rapporti di cui ognuno degli elementi è portatore. Come dice Edward Branigan: "Narration […] is not a person or a state of mind, but a linguistic and logical relationship posed by the text as a condition of intelligibility" e nonostante sia opinabile la testualità degli oggetti in questione altrove l'autore: "the general problem is to relate, on the one hand, the act of perceiving (narrating/viewing) to, on the other hand, the subjects and objects of a text (which in a diegetic frame comprise characters and their world of objects). Pur lavorando su sistemi di linguaggio (codici e sottocodici), la teoria di Branigan sui frames narrativi legati ai plurimi punti di vista (e visione) nel nostro caso si coniuga con la nostra traiettoria atta ad evidenziare il tragitto tematico e di senso che lo sguardo (del personaggio, della retorica che lo vede guardare) instaura in un sistema filmico. Queste erano le premesse minime necessarie per spiegare il nostro approccio ai tre film, pretesto e nucleo, della trattazione.
A sei anni di distanza da Manhunter, dopo aver curato come executive producer cinque stagioni della serie Miami Vice (1984-89) e due di Crime Story (1986-88), Mann rientra nel circuito hollywoodiano con una bizzarria che nonostante tutto riscuote incredibile successo mondiale, L'Ultimo dei Mohicani. 
Pur frutto di alcune semplificazioni dovute, per lo più, a compromessi produttivi, ci fornisce lo spunto di partenza per l'analisi sommaria di quest'atteggiamento nei confronti della spazialità, a partire dalla "pre-americanità", dal momento della frattura che secondo noi è alla base di quel mito dell'oltrepassamento, della frontiera e della solitudine di cui dicevamo poco sopra.
Le sequenze d'apertura pongono con chiarezza i due mondi che saranno il centro ed il motore dell'evoluzione narrativa e drammatica. 

La prima racchiude un'azione di caccia di tre uomini, all'apparenza indiani, Chingachkook (Russel Means), Unkas, suo figlio (Eric Schweig), Hawkeye/Nathaniel (Daniel Day Lewis), figlio adottivo del primo: attraversano di corsa la boscaglia, armi in mano all' inseguimento di una preda mai inquadrata; seguiti in campo lungo con panoramiche laterali e stacchi di montaggio, si districano nella ramaglia ed indirizzano in silenzio per la buona riuscita della battuta. La complessa articolazione dei piani (inquadrature di sola natura attraversata improvvisamente dagli uomini) e dei punti di vista, come nella più classica presentazione dei personaggi, si interrompe nella stasi, leggermente rallentata di un'inquadratura in requadrage in cui Hawkeye prende la mira con una lunga carabina. Il verso di percorrenza dell'immagine, da sinistra a destra, seguendo lo sguardo e la canna del fucile indirizza ad un fuori campo prossimo al punto di visione dello spettatore: l'esplosione del colpo, scintilla, fumo ancora inralenti ellitticamente allude alla morte della bestia (un alce). La coda della sequenza vede i tre uomini accovacciati nei pressi della cacciagione intenti a chiedere perdono al "fratello" alce ed a ringraziare per la sorte favorevole.
La sera stessa si recano a fare vista alla famiglia Cameron, coloni che evidentemente hanno stabilito per necessità un legame stabile con le tribù indiane di quei luoghi.
Nell'uniforme continuità dei colori della natura di cui questi uomini non sono che la continuazione con i marroni rossicci delle pelli, i movimenti e l'azione si sono compiuti nel silenzio che ha permesso la concentrazione dell'efficace cinetismo nell'istante contratto del colpo di fucile: l'accumulo della conoscenza del terreno d'azione da parte di questi uomini è avvenuto nel silenzio più completo, la comunanza del sentire non ha richiesto alcuna comunicazione verbale, nessun mezzo se non la dinamica degli sguardi e gli spostamenti dei corpi. Da questo momento in poi Nathaniel occuperà spesso il centro dell'immagine ed il suo agire e parlare, rafforzato da riprese in semisoggettiva, brevi carrelli laterali ed enfasi luministiche; l'adesione al suo punto di vista ed al suo agire sarà pressoché totale. Evidente ancora più se si considera il dialogo al forte William Henry con Cora: "[lei con] il volto al centro dello schermo anamorfico, la dinamica dell'inquadratura porta ai suoi occhi […lui] ripreso lateralmente da una seconda macchina, una piccola luce da sopra gli disegna il profilo. Lei è vista da lui, lui è osservato da fuori, dal regista". I primi piani sono l'ulteriore forma per rimarcare l'adesione ai personaggi.
La seconda (terza in realtà considerando la visita ai Cameron) sequenza de “L’ultimo dei Mohicani” è, invece, totalmente dedicata alla presentazione dello straniero inglese, i padroni di quelle terre sono ad esse radicalmente estranei. Le truppe ed i militari inglesi sono spesso compresi in opzioni di messa in scena segnate dalla simmetricità, di cui è esemplare il passaggio della carrozza che trasporta il maggiore Hayward (Steven Waddington) ad Albany: all’attraversamento di un ponte di muratura, il paesaggio tutto si specchia perfettamente nel fiume sottostante segnando, anche coloristicamente il proprio essere alieno alla natura. 
Per tutta la sequenza Hayward sarà re-inquadrato, dalla cornice di una porta, circondato da uniformi sgargianti e poi inserito in una marcia cadenzata dal rullo del tamburo su strade tracciate di freso, solo l’incontro con Cora e Alice si distanzia da questo sistema rappresentativo ritagliando una sezione dasogno realizzata con una ripresa con dolly che si unisce a quello della steadycam, movimenti sinuosi e “slegati” dall’impianto scenico, anche da questo Heyward viene scacc