Drammatico, Recensione

MIA MADRE

TRAMA

Margherita è una regista di successo in crisi creativa che deve affrontare alcune difficoltà anche nella vita privata, la malattia della madre e un rapporto che sta finendo.

RECENSIONI

Un film d'autore, alla prima persona singolare, sin dal titolo, sin dal «dativo di possesso», didascalicamente. Il film di un personaggio pubblico che riflette su di sé e sul proprio io al lavoro, totalmente ripiegato a dibattere sul ruolo del regista nel mondo, interessato a raccontare il rapporto tra l'intellettuale e il reale, tra le questioni personali e il proprio mandato culturale. Un film di Moretti su Moretti, qui, ora, come sempre, il film di un ego ipertrofico che è il racconto del suo rapporto con l'intorno. Colmo di sacche d'esistenza svuotate in ogni fotogramma, ritmato da ritorni e rimandi a una storia personale che è anche e soprattutto storia cinematografica - di aneddoti pamphlet e bagatelle su-di-sé condivisi con il pubblico - Mia madre è per Moretti il film della crisi, il film di un autore che si dice incapace di far fronte al proprio ruolo, il film in cui mettere in scena il principio della sua incertezza, lo sfaldarsi della sicumera di un io che s'è sempre esaltato nelle frasi apodittiche, nell'eccentricità aggressiva, nell'individualismo rigonfio con cui bacchettare il mondo, con cui sentirsi inadeguato: dove prima c'erano l'esser inidoneo, la trincea egoriferita e critica che fa la gioia dello spettatore intelligente, la presa di coscienza del proprio peccato di hybris ponendo l'accento sui peccati del mondo, ora ci sono solo figure dell'indebolimento, faglie di indecisione, fragilità. Laddove, geometricamente parlando, c'è sempre stato un personaggio convesso, praticamente acuto, un io insofferente nei confronti di un contesto - che non lo rispecchia, che non lo può soddisfare, e in cui s'afferma per contrasto e dolore - oggi c'è la sua resa, la sua bandiera bianca disperata e dignitosa.

Perché qui, a esser protagonista, è un io ferito incapace di farsi principio unificatore: Moretti cerca una dialettica (fallimentare) del doppio, scinde il suo punto di vista tra la figura vicaria, esasperata e scoperta, di Margherita e quella di un se stesso inedito, trattenuto ma non meno inadeguato, capace di controllo eppure roso dal dolore, Giovanni. Chiede ai personaggi di rispondere al nome proprio degli attori, in un gioco di didascalico scambio con il reale. Prende alla lettera il tormentone parabrechtiano dello «stare a fianco del personaggio» e si pone accanto al proprio alter ego. Misinterpreta. Se Margherita dice: «il regista è uno stronzo, perché mi date sempre retta?», Giovanni dice: «il regista ha sempre ragione». I motti di spirito, le sentenze di Moretti si contraddicono, l’archivio dello spettatore amante della citazioni, dei «continuiamo così, facciamoci del male», dei «D’Alema, dì qualcosa di sinistra», non si riempie di materiale utile. L’incombere della morte della madre frantuma gli schemi d’interpretazione del mondo, infragilisce lo statuto dell’immagine, fa sbandare il film tra forme che non sanno come sublimare il lutto: e il suo cinema bozzettistico, critico e paradossale si fa massa d’indistinto, confonde scene di sogno banalmente didascaliche, fortemente realistiche, e un reale che non sa essere banale ma continua a farsi cocciutamente surreale, come in un tempo presente che scopre d’un tratto d’essere storia, d’essere traccia di passato e ipotesi di futuro. E questo disorientamento, questo vuoto di centro, questa zoppia dell’immagine, questo incrinarsi della deissi, del qui e dell’ora, sono il fulcro di Mia madre. Che è un film sulla presa di coscienza del tempo oltre l’uomo, sulla mancanza di certezze, sulla fatica del tenere insieme le cose della vita, sul sapere come ordinarle. Sull’assenza di una gerarchia. Sulla sfiducia nel cinema, mentre ci si abbandona al cinema. Si apre sul film nel film, subito fuori centro, subito fuori controllo. Perché quelle immagini di scontro tra uomini di legge e operai non dicono di Margherita, sfuggono al suo pensiero, perché nessuno, di fronte a quella scena, a parte lei, s’è posto una questione fondamentale: «Da che parte sta l’immagine? Dalla parte di chi picchia o di chi è picchiato?». Il cinema messo in abisso in Mia madre è una lingua automatica e non ponderata, cosmetica inerte e fuori dall’etica, un eterno ritorno industriale di storie, attori, critici, manifesti, di parole sempre uguali, di rapporti di potere consunti e reiterati, un copione stanco e amorale che si scolla dal reale. Quando Margherita riceve la notizia dell’aggravarsi della situazione della madre, decide di continuare a girare, rassegnata: e nella scena che risponde al suo controcampo, al suo «azione», c’è un cinema lontano dal mondo, che non fa risuonare minimamente il suo stato d’animo, ma continua mestamente a essere opera «d’impegno civile», irrealistica, inutile, artificiale. Non c’è niente, di lei, in quel film. È un cinema che non le appartiene, in cui non si riconosce anche quando accoglie il vero, anche quando importa dal reale la figura imbellettata del nuovo operaio, a fronte dell’immagine storica che Margherita porta con sé.

E in tutto questo arrancare del certo, in questo relativismo spossante, in questo smarrirsi della memoria, del senso, in questa abiura sconsolata del discorso declamatorio di Moretti, si cerca di recuperare faticosamente - mentre lei si spegne e dopo che s’è spenta - l’insegnamento della madre: e allora il latino, l’analisi della lingua, il ritorno alle radici, l’attitudine alla comprensione, il lavoro critico di lettura, sono quel che resta e può restare dell’uomo contro i fugaci sfoggi di retorica, contro il parolaio del contemporaneo, contro il narcisismo che sfrutta il reale come estensione di sé, contro i feticci che perdono l’aura affettiva. Ed è a questo - con le testimonianze degli studenti, in un momento di cinema piano, elementare sino al rischio dello stucchevole - che il pre-finale è dedicato: all’elogio dell’ascolto, all’eredità di un personaggio concavo, la madre, sua madre, che faceva risuonare l’intorno, una persona ricettiva e comprensiva nei confronti del mondo. Così, in Mia madre, dopo essersi fatto ammorbare dal Berlusconi-che-è-in-me-e-in-tutti di Il caimano, dopo essersi deposto dal ruolo di guida politica con Habemus papam, l’io di Moretti si piega ulteriormente, si sfibra e sfilaccia, si frammenta e si disperde per lasciare il posto al lascito di un personaggio completamente differente, a un desiderio d’incontro e non di scontro, a un «a domani» che è insieme un gesto di sconfitta (di Moretti personaggio pubblico, regista, intellettuale) e un incarico (possibile?) per il suo futuro d’autore. Questo ci pare essere Mia madre, film di cupa fine, opera caos, apocalisse trattenuta, a stretta misura d’autore, limitata come sempre, fuori dal cinismo di oggi: un film sulla crisi di uno sguardo aggregante, sullo sfaldarsi di uno schema interpretativo del mondo, un film coerentemente slegato e caracollante, coattamente confuso. In cerca non d’autore, ma del suo abbandono. Di un io che non si riconosce e si vuole nuovo, in nome della madre, di sua madre.

Più che come film a sé stante è interessante rileggere Mia madre a livello contestuale, sforzandosi, quindi, di rilanciarlo in un gioco più grande, in un'architettura più complessa, qual è la filmografia di Moretti, a sua volta predisposta all'intromissione di aspetti esterni al discorso filmico (De Bernardis scriveva che nei suoi film «La dimensione del possibile è annichilita dall'invadenza del reale»), ad istanze contingenti con le quali ha sempre instaurato un serrato scambio di introiezioni e proiezioni, così da farsi forma non tanto autobiografica, quanto autobiografistica: occasione per l'invenzione di un personaggio certamente della stessa stoffa e in stretta relazione con il vissuto dell'autore, ma che è comunque altro rispetto a lui, più esposto alle tensioni del presente, agli umori generazionali. Un Io parallelo che è cresciuto accanto a quello ufficiale, e che l'autore in qualche misura subisce, essendo diventato negli anni davvero un modo di essere, di vedere, di pensare; una posa da ricalcare: quella di un soggetto intrattabile per colpa di un mondo sempre troppo imperfetto rispetto ai suoi ideali. La consapevolezza della propria ingombranza ha come conseguenza la fuga dal peso insostenibile delle responsabilità, tema centrale in Habemus Papam, «un film - come scrive Sangiorgio - totalmente incentrato sulla separazione spaesante tra Attore e Ruolo», ma che attraversa trasversalmente tutto il cinema di Moretti, che, non a caso, Roberto De Gaetano considera imperniato attorno allo smarrimento della presenza. La tensione dualistica evidenziata da Sangiorgio, in Mia madre si moltiplica; non più soltanto attore e ruolo, ma anche autore, persona, maschera, questa rimodellata sul proprio stesso privato: tutte configurazioni che in una pratica continua d'intercessione rappresentano un Io caleidoscopico, proteiforme, costantemente proteso al ripensamento di sé, che dietro la sua narcisistica teatralità nasconde la propria irreperibilità (cfr.  De Gaetano). L'ininterrotto diario filmico di Moretti, romanzo autobiografico a tappe, sempre giocato sul cortocircuito tra fiction e nonfiction, dove l'autore ha potuto elaborare le proprie angosce personali in un processo, allo stesso tempo, identificatorio e di esternalizzazione, in quest'ultima continuazione  ritorna, come già era successo per  l'esperienza della malattia raccontata in Caro diario, a confrontarsi con la messa in forma di qualcosa di intrinsicamente irrappresentabile: la morte della propria madre. Ancora una volta filmarsi, parlare di sé, riuscire a oggettivare il dolore, a  dare un senso, una consistenza al proprio esserci, e attraverso il ricordo riacquistare un controllo retrospettivo sugli avvenimenti. Il cinema permette a Moretti di spezzare, parcelizzare l'inarticolato flusso della sofferenza, insopportabile, da rivivere, nella sua continuità, predisponendolo all'elaborazione. Ecco allora che il distacco non irrompe con tutta la sua scandalosa e incontrollabile forza di realtà, ma procede lento e protratto, pieno di subordinate, di parentesi, di brusche torsioni e lunghi giri. Una costruzione a scatole cinesi (con sequenze di film nel film, nuova occasione per rappresentare, come già in Sogni d'oro, Aprile e Il Caimano il lavoro di una troupe) che permette un continuo scivolamento fra realtà e finzione, reale e onirico, passato e presente, sfociante in una dimensione mentale rarefatta, determinante, in chi guarda, una condizione di incertezza: ci troviamo, in larga parte, incapaci di stabilire se all'interno della narrazione esista una zona non attraversata dall'allucinazione.

In Mia madre il regista reinventa quel particolare modo di raccontare sperimentato in Caro diario, e continuato poi in Aprile, che ricorre all'inserto della “voce off in”, come definita dallo stesso autore, una voce contemporaneamente fuori e dentro il campo, che qui Moretti risolve attraverso la costruzione dei due fratelli, Margherita e Giovanni (lei suo alter ego femminile, e lui , per certi versi, proiezione mentale della sorella) che sono un evidente sdoppiamento del proprio Io: il rapporto tra i due rispecchia infatti la dualità tra l'io che soffre e subisce (Margherita) e l'io che elabora e controlla (Giovanni). Questa dialettica però non si attiva soltanto nel confronto con la morte della madre, ma anche nel momento in cui Moretti riflette su di sé in quanto personaggio pubblico, sulle aspettative che si hanno verso di lui e che lui stesso ha contribuito ad alimentare, esibendo, romanzando e parodizzando le proprie idiosincrasie, pigrizie, manie: nella sequenza onirica fuori dal cinema Capranichetta, con la fila infinita di persone lì per vedere Il cielo sopra Berlino, le parole che Giovanni rivolge alla sorella regista (“Margherita fai qualcosa di nuovo, di diverso. Dai, rompi almeno un tuo schema, uno su duecento”) rispecchiano le pressioni che l'autore sente rivolte verso di sé e che evidentemente condizionano il suo lavoro. Quasi una sensazione di imprigionamento, la stessa che vive anche Barry Huggins, l'attore straniero, interpretato da John Turturro; la star del film di Margherita, che ad un certo punto, come soffocato dal sovraccarico di maschere messegli e messesi addosso urla disperato: "Take me back to reality!". Da un punto di vista strettamente testuale, Mia madre è un film scritto male, danneggiato da una sceneggiatura che, cercando di compiacere lo spettatore, offende il tema che decide d'affrontare: piana, banalizzante, sempre pronta a ricucire, e quindi ad attenuare, addomesticare, la lacerazione. Una sceneggiatura stucchevolmente toccante, come accade, ad esempio, nelle sequenze finali, con gli ex studenti che vanno a cercare la madre di Giovanni e Margherita, loro insegnante di latino ai tempi del liceo, e non trovandola la raccontano ai figli nella maniera in cui non l'hanno mai conosciuta. E per evitare che il messaggio sfugga questo viene sottolineato, fatto dire ad alta voce ad una delle convenute. Più che uno script, quindi, una chiosa, un commento che priva di profondità e oscurità l'immagine e il soggetto.

Due esortazioni aprono il nuovo film di Moretti: quella della regista Margherita all'operatore, affinché mantenga una maggiore distanza rispetto al soggetto da inquadrare, e quella che il fratello Giovanni rivolge, in sogno, alla protagonista, invitata a 'rompere gli schemi' che ne ingabbiano l'esistenza. Proviamo quindi ad accogliere questo doppio invito e a vedere in Mia madre qualcosa di diverso rispetto a un diario (para)biografico (anche se la madre di Moretti era, come Ada, insegnante di liceo). Il film presenta dapprima una struttura rigorosamente binaria, costruita su opposizioni elementari: il bisogno di Margherita di mantenere tutto sotto controllo che si scontra con il mistero e l'ineluttabilità del destino di Ada, il mondo del cinema 'impegnato' messo a dura prova dal contatto con il non-metodo di lavoro dell'attore hollywoodiano, la sconsolata cupezza della malattia - vedi alla voce Caro diario - e la calma allucinata delle parentesi oniriche, con frequenti sovrapposizioni fra realtà e sogno che culminano nella scena dell'allagamento. Quest'ultima circostanza, determinando il trasferimento di Margherita nell'appartamento di Ada, segna lo sgretolarsi di ogni rigido dualismo e del concetto stesso di tempo: non più linea da percorrere in direzioni opposte (Margherita rifiuta il futuro - non solo la morte della madre, ma la possibile felicità con il nuovo compagno - e non può ricordare il passato - i ricordi della madre appartengono ai suoi studenti, non alla figlia, così come Barry non possiede l'immaginato trascorso kubrickiano), ma traiettoria circolare in cui presente, passato e futuro si sfiorano, si sovrappongono, si annullano. Margherita (adolescente e donna adulta), Livia e Ada riversano l'una sull'altra la malinconia, la solitudine, la tenerezza e il senso di perdita, mentre Giovanni (l'attore accanto al personaggio, o forse è il contrario?) ammette la propria stanchezza, senza ragioni, senza prospettive, senza complessi di colpa. Come in Habemus Papam, il personaggio si confessa inferiore o semplicemente inadatto al ruolo, mentre la fiction (là l'inconcluso conclave, qui la lavorazione del film di Margherita) nasce dalla non-fiction e ne determina gli sviluppi: come i lavoratori devono far spazio, seppur a malincuore e di stretta misura, al nuovo proprietario, così la protagonista finisce per ammettere i propri limiti, come figlia non meno che come persona e artista, e per esorcizzarli, filmando un (im)possibile avvicinamento fra padronato e classe operaia proprio nel luogo in cui si era consumato l'inevitabile epilogo della sua relazione amorosa. Paradossalmente, nel momento in cui il tempo si annulla, Margherita (ri)comincia a vivere, non più schiava delle proprie ossessioni sulla realtà (l'aspetto e il trucco delle comparse, il tentativo di 'facilitare' la realizzazione della scena dell'automobile). Al tempo stesso maschera e doppio femminile di Moretti, Margherita Buy trova letteralmente il ruolo della propria carriera (quello in cui può e deve fare una sola cosa, ovvero Margherita Buy, e ci riesce ovviamente benissimo) e costruisce un controcanto perfetto alla straziante immobilità, alla voce da autentica virtuosa di Giulia Lazzarini e alla vitalità disarticolata quanto trascinante di John Turturro.

Nanni spostati che non vedo il film
Qualcuno ricorderà la battuta acidissima di Dino Risi sui film di Moretti, quando l'alfiere del nuovo cinema italiano fine anni settanta si inventava il personaggio di Michele Apicella e andava in tv a dar testate a Mario Monicelli e al cinema di papà. Bene, ad un certo punto diciamo pressappoco dopo La stanza del figlio, cioè dopo avere vinto una Palma d'Oro che obiettivamente per un regista come Moretti è perfino troppo, il narciso, l'ego morettiano, si è spostato, si è come fatto da parte, un fuori vista che ogni tanto fa capolino in un paio d'inquadrature (l'apparizione di Moretti ne Il Caimano è da suspense). Una sparizione corporea non come nel cinema di Woody Allen (lì c'è la conclamata vergogna di autoinquadrarsi da vecchio), ma per una curiosa e stimolante riapertura al doppio: Silvio Orlando ne Il Caimano, Michel Piccoli in Habemus Papam, qui in Mia Madre con Margherita Buy. Ma che succede? Finché si tratta dell'apoteosi rappresentativa del male italiano (Berlusconi) e del proprio fallimento matrimoniale - leggi Il Caimano - funziona discretamente; finché si fa gli equilibristi sul crinale del metaforico (l'indecisione papale in Habemus Papam per traslare un’impasse professionale e simbolica) ancora regge, ma il doppio Buy in Mia Madre proprio non riesce ad esistere. Se partiamo quindi dal'assunto che l'attrice protagonista non c'è, non è presente, o meglio appare il solito nevrotico personaggio che interpreta la Buy (ne sa fare altri?), anche la necessaria e più volte rimandata accessibilità al lutto su cui si basa l'intera opera morettiana, rimane come in superfice, un pattinare agitato e buio per intere sequenze sulla vana attesa di un evento; come se la Buy/regista (a proposito, regista di un film su degli operai in lotta che non vorremmo mai vedere!) da possibile filtro con cui far passare emotività, senso e direzione dell'opera senza il totem Moretti, si facesse doppia schermatura, respingente, del dolore. Insomma Mia Madre sarebbe già concluso qui, dinanzi a questa interprete inesistente che occupa abusivamente lo schermo per un'ora e quaranta, e che ricorda la Billa in Maledetto il giorno che t'ho incontrato carica di ansiolitici e imbranata nel fare il benché minimo gesto (vedi la ricerca frenetica delle bollette della luce tra cassetti e cestini della cucina).


LIMPORTANZA MORETTIANA DI FRONTE AL REALE

Sappiamo da tempo della ritrosia di Moretti nel mostrare elementi del campo visivo passabili per pornografici. Questo suo continuo coprirsi gli occhi di fronte a dettagli orrorifici della rappresentazione, come del reale (Caro Diario, Aprile), o a disquisire, grazie all’atona Buy/regista in Mia Madre, sul suo direttore della fotografia del suo orrendo film che con la m.d.p. sta appiccicato (ma neanche tanto) agli attimi di botte tra polizia e operai (“ci sta vicino perché gli piace filmare la sofferenza degli operai o la violenza della polizia?”). Ecco, così facendo Moretti, in un carpiato del paradosso (non sto con nessuno dei due, quindi non filmo), dichiara definitivamente di non volere partecipare alla festa voyeuristica di cui il cinema da lui non apprezzato fa vezzo. Arretra, si isola, si copre nuovamente gli occhi: solo che in Mia Madre questo coprirsi gli occhi non è l’immagine che vediamo noi spettatori del protagonista che non vuole guardare lo schermo, bensì del regista Moretti di fronte al set che coprendosi gli occhi non ci permette da spettatori di vedere alcunché sullo schermo. Non capiamo da cosa derivi questa autopunizione del non guardare in profondità la tragedia del lutto materno – anche perché l’ha scelto lui di parlare della morte della madre – ma capiamo certamente che si tratta della sedimentazione di una poetica a perdere, ad essiccare all’infinito, costruita nel tempo e nei suoi film per ragioni altre, volendo perfino di asfittico ed elitario snobismo borghese. Fatto è che Moretti con Mia Madre ci consegna uno schermo vuoto, un film fantasma, nel senso che appare solo a chi crede nelle apparizioni: agli amici morettiani di Roma, ai fan accaniti da stadio, a chi imperturbabile non riconosce il passare del tempo e l’avvizzimento di un autore. Da dove deriva questa impotenza di sguardo, questa mancanza di coraggio del guardare, questa prudenza a difenderci dall’orrore della morte quando invece si fa un film in cui Moretti stesso autopromuove un dato personale ed intimo? Il problema di Nanni Moretti è politico. Paurosamente politico. Nell’evo sociale e culturale del post antiberlusconismo il suo cinema non esiste più. Non ha basi di senso per stare in piedi, non ha peculiari appigli materiali su cui poggiare nuove riflessioni, siparietti buffi e doppi narcisi per sostituire la sua ingombrante presenza. Tesi, antitesi e sintesi sono tre vagoni di un treno dell’esposizione pubblica che sono già passati. Rivendere la propria intimità come qualcosa di sacro ed intoccabile, solo perché firmato da lui, significa solo una cosa: totale impotenza di fronte ad una nuova realtà, la vecchiaia, la perdita definitiva, l’abisso del non ritorno. Pensate all’aiuto che ha chiesto Moretti in sede di soggetto - quattro le soggettiste - e di script con tre sceneggiatori tra cui un altrettanto ingombrante Francesco Piccolo che ben che vada può, un po’ come Umberto Contarello per Sorrentino, inventarsi boutade minimaliste o l’estetizzazione di un piatto di pasta e fagioli come origine del mondo, ma non di certo aiutare nella tessitura di una umana e drammatica elaborazione del lutto (anche qui la premiata ditta snob progressista è una tassa da pagare comunque?). Insomma l’elegia funebre che doveva essere Mia Madre, film etereo ed impalpabile, diventa il funerale del cinema di Moretti e del morettismo. Chiudiamo con un paio di domande: qualcuno oggi riesce ad immaginarsi di cosa potrà parlare il prossimo film di Moretti? Ma il cineasta Moretti senza non diciamo tanto la presenza, ma l’idea di presenza di Moretti attore sullo schermo, anche solo coprotagonista di una sequenza, esisterebbe? Ecco allora che per paradosso l’improvvisa mancanza del mostrarsi in primo piano, l’inciampo dell’uomo Moretti sempre in scena, sempre in discussione, seppur nei suoi limiti da tinello casalingo (il tinello universale morettiano in cui si riconoscono come in un sacrario d’arredo tutte le disastrate trasformazioni della sinistra italiana), seppur appoggiato sbilenco al doppio attoriale che non funziona, porta ad una incontrovertibile impossibilità del filmare.

Nanni Moretti s’è perso come la gag-non gag della sua regista di finzione che chiede, in modo brechtiano, di recitare “tenendo se stessi accanto al personaggio”. Lo ammette candidamente attraverso l’alter ego Margherita Buy: fa come l’ultimo Woody Allen che delega il suo personaggio di sempre a qualcun altro, in questo caso sdoppiandosi anche in quello di John Turturro, cui riserva la parte “commedia” con il tipico americano gradasso, urlatore, prevaricatore e simpatico. L’ingegnere, invece, volutamente dimesso, inesistente, sottotono, più che “il” Nanni cinematografico è quel tipo di carattere scoperto in Caos Calmo (di cui ritorna, non a caso, il luogo-panchina): eppure è a lui che Moretti fa sentenziare “Il regista ha sempre ragione” (sdoppiamento dell’Io, della sua contraddittorietà). Quindi: l’alter ego gira il film sulla fabbrica occupata ed i giovani in corteo che tutti vorrebbero facesse l’autore Nanni Moretti; l’alter ego, però, durante una conferenza stampa, pensa di non possedere le risposte e, comunque, di avere altri problemi (la madre morente). Buona autoanalisi in film ma Nanni s’è perso anche in un altro senso e dimostra che La Stanza del Figlio, cui quest’opera stilisticamente (canzone portante reiterata compresa) e per temi si riallaccia, era un fuoco di paglia a seguito di un cinema diaristico alle corde. A parte il banale (per lui) metacinema, tornano il dramma della morte e l’autobiografia (la madre di Moretti morì durante le riprese di Habemus Papam) ma manca il pathos, questo suo nuovo cinema di “scrittura” (sceneggiature pensate e ripensate) ha perso tutta la spontaneità, il nerbo, l’emotività, la creatività e la spinta per dire qualcosa di nuovo pensando ad un mondo nuovo. Si sorride con Turturro, ci sono passaggi riflessivi toccanti, ma si chiude senza raccogliere nulla, in modo scontato, con abuso di violini e note di pianoforte, per colpire al cuore. Non è più importante che dica qualcosa di sinistra, ma che lo dica almeno bene.