Drammatico

MI PIACE LAVORARE (MOBBING)

TRAMA

Dopo l’insediamento di una nuova gestione nell’azienda, Anna comincia ad essere sottilmente maltrattata dai datori e colleghi di lavoro.

RECENSIONI

Tra il Ken Loach più ispirato e il Cantet di RISORSE UMANE, l’ultimo lavoro della vera Comencini (non la sorella, sepolta di commediole) è un film amaro e commovente, essenziale ed appassionante. Senza mezzi termini, il tema del lavoro e delle sue vessazioni è affrontato con lo schiaffo violento della vita quotidiana: non piacerà a tutti quelli che non amano ritrovare in sala le piccolezze della everyday life, il routinario impiego statale che ti rode dal di dentro e manco te ne accorgi. Condannato a deludere anche chi distoglie le pupille vedendo una donna che, appena dopo il parto, “spreme” il proprio seno pur di non macchiare il maglione e far brutta figura con i colleghi di lavoro (splendido personaggio secondario). Lo odieranno coloro che nella vita reale attendono davvero in un corridoio bianco e vuoto seduti a fianco di una fotocopiatrice, impegnati a scrutare il muro e la propria dignità che scompare. Non vi è nessuna finezza registica in questo lavoro così innegabilmente riuscito, al contrario la macchina da presa si fa pedantemente assente, non esiste, come in dolorosa contemplazione dei suoi personaggi. Almeno due figure memorabili: Nicoletta Braschi che, staccatisi dal marito (e dalla fatina laccata di PINOCCHIO), torna finalmente a recitare e fa ricredere il sottoscritto sulle sue doti effettive, e la piccola Camille Dugay, figlia d’arte della regista, tanto umana da essere una bimba vera. Finalmente la prole che non parla da adulta, ma adempie al proprio ruolo: un’ingenuità tenera e spontanea, rigata di lacrime davanti all’affronto di un cappotto cestinato dall’altrui arroganza (una trovata a dir poco ammirevole). La forza del piccolo film di Lady Comencini è proprio questa: dipanare il quotidiano con il quotidiano, colorare il grigiore usando i toni grigi, senza mai strafare o scavalcare le righe (l’omissis sul marito di Anna). Il risultato è una verosimiglianza che colpisce nel profondo, dove lo sfondo sociale diventa sfondo vitale. La conclusione tirata via (l’incontro con la sindacalista) e qualche lieve adagio sullo stereotipo (il saggio di danza) sono la tassa da versare ad una materia infuocata, coraggiosamente trattata in sottrazione e meticolosamente forgiata da un’umanità devastante. Basti dire: la scena della Braschi, donna spossata che non riesce (rinuncia?) ad alzarsi dal letto. Chi mai la porterebbe al cinema una cosa del genere? E’ bello sapere che ce l’abbiamo in casa, subito dopo l’omaggio a Carlo Giuliani, con la collaborazione degli sportelli anti-mobbing della Cgil e di veri operai che si prestano a prove attoriali. Per una volta la tematica che brucia non è arida legittimazione per un paventato impegno d’artista né ricatto morale né scusa per nobilitarsi, ma davvero cuore pulsante (e sanguinante) dell’umanissima questione. Sacrosanti applausi a Berlino, che sanciscono il vero cinema d’autore; infatti cinema è l’idea coraggiosa che se ne frega di ogni incasso (in principio doveva essere un documentario), autore è l’animo maltrattato di ognuno di noi. Un doloroso spartito d’esistenza che piange la discriminazione e canta infine un limpido peana al sentimento, trasmettendo alla platea una rara preziosità: la forza di tirare avanti.