TRAMA
Adrien è un moderno Peter Pan. Ormai trentenne, si comporta ancora come un ragazzino. Da piccolo ha conosciuto il successo come attore, ma ormai sono passati più di dieci anni, e oggi Adrien non ha né fama né soldi. Deve tornare a vivere con i suoi genitori per ricominciare da capo. Sospeso tra la possibilità di una storia d’amore e quella di un ritorno come attore, che Adrien si immagina trionfale, il suo percorso sarà pieno di ostacoli (dal pressbook).
RECENSIONI
Antoine de Bary si ispira alla sua vicenda personale (anche lui è figlio di una psicologa) e costruisce un alter ego nell’Adrien di Vincent Lacoste: trentenne di oggi, mai cresciuto e irresponsabile, si ritiene attore per un unico ruolo interpretato da bambino ma, in un movimento ad elastico, dovrà tornare a vivere con i genitori. Già l’incipit puntualizza il carattere del personaggio: si chiude fuori casa e chiama i pompieri, in un dispositivo comico sul “vivere male” che mette subito le carte in tavola. Qui parte il racconto di formazione agrodolce, un dramedy francese sull’eterna difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo: la psicologia in casa, con la mamma di Emmanuelle Devos, non aiuta e così Adrien si incarta gradualmente in un vortice coeniano. Tutto va male: laddove non c’è l’elemento empirico a scatenare la tempesta è il dato mentale, quello determinante, in particolare, a suggerire la presunta impotenza del giovane che è tutta nella testa. L’allergia alla responsabilità va insieme alla sopravvalutazione di sé, nella convinzione di essere attore e lavorare nel cinema (ma un set è sempre un’illusione): in tal senso il coming of age si fa davvero contemporaneo e riguarda i nostri anni, il dolore e il vuoto dei twenty-something (per colpa loro, ma non solo), che vivono antifrastici “giorni di gloria”. Adrien rompe con la ragazza e viene licenziato: il racconto da comico diviene tragico e non resta che gettarsi nella Senna. Dentro un istituto, tra i “pazzi”, finalmente si trova una strada possibile: fuori dal dettato sociale, annullata la distanza tra normalità e follia, tutti sono sullo stesso piano e a mente libera si può costruire un’ipotesi sentimentale. Limitandosi alla declinazione di un congegno, tutto sommato previsto, Mes jours de gloire consegna un protagonista irresponsabile ma non odioso, anzi si accorda empatia all’ottima interpretazione di Lacoste, fantoccio chapliniano che gira a vuoto vittima dello spirito del tempo.