Catastrofico, Drammatico, Recensione

MELANCHOLIA

TRAMA

Melancholia sta arrivando. È la fine del mondo.

RECENSIONI

PROLOGO

Scrive Sigmund Freud, in Lutto e melanconia: «La melanconia  è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoinganni e culmina nell'attesa delirante di una punizione». Dopo l'evento dinamico luttuoso che apriva Antichrist - capodopera simbolista, sfacciato e dolorosamente furente - Lars Von Trier (LvT) affronta il polo opposto e complementare del testo freudiano per procedere nel medesimo discorso intimo, dire nuovamente, a cuore in mano e possibilità di lettura metaforica universale, della propria depressione, della propria, consapevole Melancholia. Capitolo II di un'autoanalisi in forma cinematografica, Melancholia dunque delinea sin dal titolo il proprio orizzonte, messa in scena pubblica di una patologia narcisistica, vomito esistenziale sublimato in immagine in movimento, dono nudo, il più diretto e il meno calcolato del regista danese. Abitato da figure chiaramente paradigmatiche, il dramma si muove, di conseguenza, su un piano di sincerità espositiva che segna la naturale prosecuzione col precedente Antichrist, semplificandone la foga metaforica ereditata dal Tarkovskij più ermetico, ponendosi come controcanto trasparente e basandosi con evidenza su elementi comuni: il prologo formalista, la bipartizione, il poggiare su due personaggi principali, l'uso strumentale del genere (il dramma borghese, la fantascienza catastrofista stanno a Melancholia come l'horror sta ad Antichrist), la riflessione stilizzata sul gender (con il ruolo femminile a soverchiare, al solito, i risibili e deplorevoli ruoli maschili, come quello del cognato John, incarnazione idiota della Ragione e della Scienza, parente del Lui di Antichrist). Così, come il precedente, l'opera ultima del danese è distillato di poetica, ma capace come mai prima di emanciparsi dal gioco mutuato dalle avanguardie, dalle provocazioni trans-storiche dell'arte contemporanea, libero dall'esigenza egotica del balletto nel mercato autoriale, caratteristiche che hanno fatto e fanno di LvT cineasta nobile e nobilitante per la Settima Arte, strutture dalle quale qui si slega, puro e candido, con dolore sempre più serafico, con consapevolezza ormai placida. Perché tutto è già successo, in  Melancholia: il sontuoso incipit dipinge quadri onirici rallentati secondo gli orologi molli di Dalì, tele animate girate da una Phantom Hd Camera in cui si agitano (per quel che riescono, nella stasi) i sogni premonitori di Justine, tableaux vivants sulle note del Tristano e Isotta di Wagner che preannunciano il disastro, frammenti di un'overture che sintetizza temi e vicende dell'intero film, preludio in forma pittorica e psicanalitica, dove presagi e libere associazioni danno subito conto dell'impatto di Melancholia con la Terra: la Fine è nota, non c'è speranza per il nostro pianeta, il finale è definitivo. È la Catastrofe. Così, nell'anticipare ogni cosa, persino la risoluzione, LvT distoglie l'attenzione dello spettatore verso lo sviluppo della vicenda generale, ammansisce la tensione narrativa, spoilera per costringere a soffermarsi sui personaggi, sul loro percorso interiore. E, retaggio della sua prassi, ennesima obstruction, si dona alla sfida di narrare il già avvenuto, di coinvolgere e travolgere colmando di emozioni un pubblico il cui sapere è già saturo, appagato.

1. JUSTINE

Justine, al centro di una vita che non le appartiene, schiacciata dall'apparato borghese, riconosce nel suo matrimonio l'apoteosi del meccanismo sociale che l'ha risucchiata. La limousine che non riesce a passare attraverso la stretta strada della montagna, ostruzione a molti livelli, drammaturgicamente indica non solo l'ossessivo tentativo di collocare l'impianto di forme e convenzioni in un ambito che non è disposto in alcun modo ad accoglierlo, la grandeur inopportuna di una classe, il sistema che vuole imporre le sue regole, inadeguato nella lettura della realtà, ma anche il tentativo strenuo di inserire di forza le figure dei due sposi nel quadretto familiare.  L'immagine, però, si sta dissolvendo. Tutto sta venendo meno. Justine sogna di essere impelagata in una trama di radici che le impediscono di camminare, essendo al centro di una messinscena progettata e condotta da altri (il cerimoniere, quando diventa chiaro che il ricevimento è un fallimento afferma: «Ha rovinato il mio matrimonio. Non le voglio più parlare») nella quale persino l'ordine in cui devono girare le pietanze è stabilito rigidamente, una recita alla quale le si chiede di partecipare con convinzione, ché il semplice sorriso, rivelando la menzogna, non basta. «Devi essere felice». Il microcosmo ritratto rappresenta, in scala ridotta, il macrocosmo dell'intera società. Il meccanismo che tutto controlla, l'affidabile regia di un copione abusato ma apparentemente ineludibile si incrina con l'intervento della madre al banchetto: la sua uscita - perentoria, cinica, realistica - crea il corto circuito, infrange la patina di falsità che avviluppa la circostanza, apre il baratro di fronte a Justine, che, nella piena consapevolezza di una verità prima solo serpeggiante, capisce che non può più recitare, non può più rispettare un ruolino di marcia in cui persino il divertimento è cadenzato a tappe orarie. Il giocattolo si è rotto, non è più tempo di autorimproveri, di autoinganni: Justine guarda la circostanza per quella che è, prende atto dell'infantilismo del padre, della violenza prevaricatrice del suo capo (di fronte alla sua sollecitazione alla creazione di uno slogan, la risposta «Niente» viene per ironia della sorte considerata come possibile), dell'insensibilità materna, del materialismo del cognato (John ricorda alla sposa quanto è costata la cerimonia e pretende di fare della felicità della giovane la sostanza di un patto), dell'indifferenza per l'immagine idilliaca della sua vita futura dipinta dal suo sposo: non riuscendo più a guardarlo con gli occhi velati da un amore che non c'è mai stato, piscia sull'erba pettinata del campo da golf, scruta al telescopio l'ascensione dei palloni augurali come fossero pianeti sconosciuti, profana la prima notte di nozze con un rapporto carnale col primo che gli capita. Come la Justine di De Sade (c'è dell'ironia nella scelta di questo nome da parte dell'autore, solitamente accusato di misoginia?), la protagonista di LvT è animale in balia delle aggressioni che gravitano intorno al suo corpo: in Melancholia, però, hanno la consistenza del modo borghese, sono  le strumentalizzazioni genitoriali, la vacuità del rituale amoroso, il capitalismo dei sentimenti, l'ipocrisia di ogni sovrastruttura. Il rifiuto della donna, l'abbandonarsi alla propria depressione, è il rifiuto di farsi elemento del discorso di questa borghesia (luogo dell'anima, prima che classe). Si sancisce, dunque, nel primo capitolo il trionfo della malinconia: Justine vede il mondo meglio e con disincantata profondità (i dialoghi confermano da subito: «Io vedo e non mi pare andare così bene» è una delle prime frasi che pronuncia, in auto, «Sono sorpreso che tu la veda» le dice John mentre lei scorge Antares nella volta stellata), prova a ridurre la propria visione alle illusioni tradizionali, si costringe al matrimonio (pratica d'integrazione sociale per antonomasia, luogo finale di miriadi di commedie), ma l'apparenza è labile, strappata dalle continue incomprensioni familiari, simulacro che si manifesta come tale, arrancando continuamente, celebrato da una festa via via più mesta, a sorriso gradualmente più posticcio.

2. CLAIRE


Nella seconda parte, dedicata a Claire, la metafora del film, che fino a quel momento si è sviluppata secondo un registro realistico, acquista toni apocalittici: la malinconia di Justine si materializza, diventa un pianeta che ingloba e distrugge il mondo, precipitato simbolico di un sentire dilaniante più grande dell'ombelicale dissidio della Terra, al di sopra della ritualistica, delle sovrastrutture, degli orpelli dell'orticello borghese, un sentire chirurgico e sapiente («So delle cose»), al di fuori del mondo, occhio d'entomologo che soffre nel vivere tra gli insetti: quando apprendiamo che Melancholia si sta avvicinando e al maniero giunge Justine, ogni cosa è chiara: della pallida luce del pianeta la ragazza si nutre, nuda vi si specchia, in un atto narcisistico sancisce l'identità tra i due elementi. Così mentre il pianeta si avvicina, è ovvio che Justine si attivi, diventi meno abulica, poiché vede la delirante punizione futura finalmente attuale: l'indifferenza con la quale attende all'avanzare dell'impatto fatale è la manifestazione di una lucidità estrema, della consapevolezza della corruzione del pianeta Terra, della sconsolata conclusione che nulla è più degno di continuare ad esistere. Intanto Claire/la Terra, protagonista del capitolo, teme Melancholia (che è anche il mondo sconosciuto e oscuro in cui vive la sorella), cerca di combatterlo nei modi a lei connaturati, imbastendo rappresentazioni stantie e mendaci (la menzogna sul suicidio del marito, il teatrino della Fine sulla terrazza, accompagnata da musica e vino), facendosi interprete sincera dei limiti di un modo di vivere ottuso che è norma, modello, paradigma, soffrendo di un dolore inconcepibile, quello che annienta la Fede nel rituale comodo e sospeso al di sopra della realtà (tanto che Justine, consapevole del dramma che sta vivendo la sorella, ammette: «A volte è facile essere me»).

EPILOGO


Catastrofico pulsante nel dolore di un kammerspiel (come in Sacrificio del maestro Tarkovskij e il coevo 4:44 Last Day on Earth di Ferrara la fine del mondo è un dramma privato che si consuma in uno spazio delimitato), Melancholia rivendica un'intima, viscerale e concreta urgenza espressiva (non è un caso che Justine sostituisca con foga immagini di opere astratte, teoriche e cubiste con lavori fugurativi di spirito romantico tesi al sublime), cinema pittorico prima (e dopo) che narrativo, dove ogni personaggio è funzione semplificata di un percorso di ricerca personale, elemento stilizzato di un quadro complessivo, opera che vive cibandosi dei suoi protagonisti e non affidandosi a essi. Un'opera dove, nonostante ciò, le figure femminili abbandonano le gabbie delle proprie caricature, isteriche e grottesche, emancipandosene, raggiungendo il tutto tondo, mentre i personaggi maschili sostanziano una misantropia priva di possibile redenzione. Costantemente fuori misura, disinteressato alle strategie di immedesimazione classiche, noncurante di ipotesi realistiche, capace di passare dal calligrafismo videoartistico all'immersività della macchina a mano, punteggiato da un montaggio cubista che vive lo spazio prima di inventarlo, e dunque sorretto letteralmente dal sonoro, Melancholia è puro cinema della sublimazione, stilisticamente eclettico (l'immediatezza non conosce rigore), gonfio di toni eccessivi e contraddittori, generoso nello sciorinare referenti (il dialogo con Tarkovskij è incessante), nel donarsi alla semplicità dell'interpretazione. Dramma (anti)borghese, fa tabula rasa di ogni scena quotidiana, getta in abisso ogni rappresentazione, ma si risolve - comunque - in un atto di creazione: e mentre Justine realizza con il nipote la capanna da questi anelata, mentre si stringe al bimbo e a Claire intanto che Melancholia accende di fuoco e spegne  questa Terra senza dio, comprendiamo come questo rito non passivo, non subito, non cieco, gesto ultimo di delicata e sublime futilità confermi, a livello simbolico, l'essenza attuale del fare cinema per LvT: il suo essere pratica serenamente inutile, il suo essere vitale, taumaturgica necessità. Perché Melancholia, a anni luce da postmodernismi e chincaglieria di sorta, è cinema responsabile, che non irride la materia di cui diviene incandescente, che non prende distanze sardoniche, ma brucia. Vetta, insieme al gemello perturbante Antichrist, di una filmografia che lentamente rinuncia alla consapevolezza retorica esibita (così come Justine rinnega gli stratagemmi della retorica  pubblicitaria) per farsi lampante rigurgito espressionista. Perché Melancholia è cinema privo di filtri. Ed è un letterale atto di passione.

Nel cielo apparve poi un segno grandioso:
una donna vestita di sole, con la luna sotto
i suoi piedi e sul suo capo
una corona di dodici stelle
Apocalisse, 12:1

Non si può negare che, almeno a prima vista, l'accusa di misoginia che spesso si sente ripetere nei confronti del cinema di Lars von Trier ha qualche appiglio fattuale. Le molte eroine del regista danese sono infatti altrettante vittime sacrificali, fragili, provate, sperdute, spesso ingenue e fiduciose, eroicamente esposte al ludibrio, all'umiliazione, alla sofferenza, all'abuso fisico e morale, sino al martirio vero e proprio. Ne Le onde del destino, la pia Bess si prostituisce fino alla morte, nella speranza di salvare così l'amato marito. In Dancer in the dark, la protagonista interpretata da Björk vive una vita di stenti, diventa cieca, viene derubata dei soldi risparmiati per curare il figlio, è licenziata dal lavoro, sfrattata, condannata a morte e impiccata. In Idioti, Karen, che ha perso il figlio, è l'unica del gruppo che accetta di portare nella vita vera la recita del ritardo mentale, tornando dai suoi genitori ed esponendosi a una messinscena umiliante e disturbante. In Dogville Grace è sfruttata, accusata ingiustamente, incatenata a una ruota di ferro e ripetutamente stuprata da tutti gli abitanti maschi della cittadina. In Antichrist, la protagonista femminile è distrutta dalla morte del figlio, manipolata dal marito, tormentata da un senso di colpa che la spinge a implorare l'abuso fisico, si autoinfligge la mutilazione degli organi genitali, è strangolata a morte e finisce bruciata su un rogo. L'assoluta centralità delle protagoniste femminili e il loro abuso ostentato è un filo che unisce gran parte del cinema di von Trier, quantomeno a partire dalla trilogia Golden Heart (ispirata - racconta il Nostro - dalla fiaba danese che racconta di una bambina dal cuore d'oro che si perde nel bosco e nel bosco perde tutto quello che ha, cibo e vestiti compresi, mantenendo però l'ottimismo e la bontà d'animo). L'eroina si offre (o è costretta) al martirio e il martirio è esibito allo spettatore, spesso con violenza radicale. Con l'avanzare della filmografia di von Trier, queste donne torturate, offese, umiliate e uccise finiscono progressivamente per astrarsi e concettualizzarsi. La presenza della martire è dapprima un vago accidente del plot (anche nella trilogia Europa troviamo donne brutalizzate per mano propria o altrui, come le vittime del serial killer ne L'elemento del crimine o la suicida di Epidemic), poi assume un ruolo chiave dal punto di vista tematico e drammaturgico (Bess, Karen, Selma) e infine assume le fattezze astratte di un'idea, del simbolo interpretativo di una desolante teoria del mondo (Dogville, Manderlay, Antichrist e, adesso, Melancholia). Questa rarefazione della funzione femminile (suggerita in parte anche dall'abbandono dei nomi di battesimo veri in favore di allegorie - la Grace interpretata prima da Nicole Kidman e poi da Bryce Dallas Howard - o della semplice anonimia - la She/Lei interpretata da Charlotte Gainsbourg) è a servizio di una caparbia insistenza tematica: il caos regna, il mondo è malvagio, la positiva scienza maschile non può nulla (e non sa nulla) sull'orribile ragione delle cose. È l'eroina, immancabilmente, a dover svelare la verità e l'orrore. E il suo sacrificio è scandalosamente funzionale alla perpetuazione dell'illusione della civiltà.
Questa spietata analisi della realtà cresce in lucidità e pessimismo col passare degli anni. E, con la stessa intensità, l'allegoria cinematografica (che pur si avventura stilisticamente in territori intricati e forme sperimentali) diventa più didascalica ed essenziale. Nella trilogia Golden Heart le disavventure delle protagoniste sono il grimaldello che scardina le apparenze ed esibisce la violenza dei rapporti umani e la miseria dell'esistenza. In Dogville e Manderlay, Grace appartiene a un mondo spietato (è la figlia riluttante di un vecchio e potente gangster), ma tenta di sperimentare l'utopia di una rifondazione politica: il villaggio perfetto, la costituzione perfetta, l'uguaglianza, l'accoglienza, la tolleranza. Tutte falliscono, rivelando - col loro fallimento - l'ineluttabile corruzione dei meccanismi sui quali riversano le loro cure e la loro speranzosa opera di salvezza.

In verità, la civiltà occidentale si fonda sulla violenta rimozione di questa terribile consapevolezza: il dolore, la violenza, la sopraffazione del forte sul debole, la morte e la definitiva estinzione. Questa è l’essenziale lezione che ci offre la natura e che le sovrastrutture umane tentano di contraffare, creando illusioni che si autoalimentano e che travestono e dissimulano il Male ma non ne rimuovono realmente la presenza e la forza. Così l’utopia americana (animata dagli ideali della libertà, dell’accoglienza dello straniero, delle pari opportunità, del diritto alla ricerca della felicità) tenta invano di nascondere il dominio dell’uomo sull’uomo; ma gli stessi uomini, a ben vedere, si autoinfliggono la prigionia e si negano la libertà proprio al fine di preservare la possibilità stessa della comunità e dell’ordine civile. Così la scienza illuminista predica il dominio della razionalità e la riconciliazione con le pulsioni vitali (con la natura); ma la natura è il regno del caos e la chiesa di Satana e la sua soppressione (la soppressione del corpo, il ginocidio) è il fondamento di quella stessa civiltà della ragione. In ogni caso, alla donna è affidato il compito di rivelare questo scandalo indicibile. È a lei che è affidata la rivelazione che il mondo è maligno. Una rivelazione terribile e paradossale, che non annuncia il regno della luce, ma quello delle tenebre. Un blasfemo ribaltamento (anti-cristico, verrebbe da dire) della tradizionale narrazione apocalittica. Nell’Apocalisse di Giovanni (che gli anglofoni chiamano, con corretta etimologia, Libro della Rivelazione) così come in altri testi della tradizione religiosa apocalittica, il mondo viene piagato dalle sciagure ma Dio finisce per trionfare sul Male e fonda il suo Regno del Bene. Nell’Apocalisse di von Trier, il mondo è apparentemente ordinato, ma copre (maldestramente) la vera, corrotta ragione delle cose, che finisce per trionfare. Ed è proprio la Donna a profetizzare la terribile verità e sono la sua sofferenza e il suo sacrificio a rappresentare materialmente la Rivelazione. In Melancholia questa idea viene ulteriormente semplificata e scarnificata. Non c’è più bisogno di torture o stupri o mortificazione della carne per significare il dolore profetico della donna apocalittica. Il Male è così lucidamente compreso da Justine, da essere interamente interiorizzato. Il personaggio interpretato da Kirsten Dunst è svelatamente profetico (indovina con esattezza il numero di fagioli in un contenitore) e sa cose che gli altri (gli uomini, soprattutto, ma anche le donne piegate al dominio illusorio della scienza maschile) non sanno. “I know things”, dice. E la rivelazione del Male è aperta, piana, didascalica, scevra degli armamentari simbolici e allegorici che popolavano e arricchivano misteriosamente Antichrist: “Tutto quel che so è che la vita sulla Terra è malvagia” dice Justine alla sorella Claire. “Quindi forse c’è vita altrove?”, chiede Claire appesa a un filo ultimo di speranza. “Ma non ce n’è”, risponde Justine. “E come fai saperlo?”. “Perché so”, because I know things. La conoscenza rivelatrice della Donna-Justine è anche, per la prima volta, rasserenata e rasserenante. La sua inconciliabilità coi rituali borghesi, con le ipocrisie della civiltà e con i calcoli della scienza umana si trasfigura miracolosamente in uno stato di coscienza superiore e olimpico proprio quando il mondo civile si rende conto della propria imminente estinzione. Anche in Melancholia, infatti, c’è la medesima struttura tripartita di Antichrist (e Melancholia per molti versi può essere visto come un doppio – distillato e purificato – del precedente film): un prologo stilizzato e rallentato (che qui mescola incredibilmente i pre-raffaelliti con i video-ritratti di Robert Wilson); una prima parte in cui la donna apocalittica tenta e fallisce il suo approccio al mondo illusorio e borghese; e una seconda parte in cui quell’illusione è scardinata. La differenza tra le due pellicole è però significativa e crea il più potente dei paradossi: stavolta non è il Mondo a trionfare (quindi la violenza che deve necessariamente annichilare la Rivelazione, come col rogo di Antichrist o con la cancellazione degli esperimenti comunitari impazziti di Dogville e Manderlay) ma il Male e la definitiva estinzione del mondo e della vita umana. E il paradosso di cui si diceva è che, a differenza di quei finali amari in cui la violenza civile ricopre la rivelazione della donna, qui la nostra Donna-Profeta ha il sorriso sulle labbra, supremamente vittoriosa sulle menzogne degli ipocriti, finalmente testimone creduta e credibile di una Fine rappresentata con il proprio tormento e la propria malattia, finalmente Cassandra accolta e ascoltata. Una sorta di perfido happy ending a rovescio, in cui la protagonista vede trionfare le proprie ragioni, benché queste ragioni siano la fine del mondo.

Difficile parlare di odio di von Trier verso le donne, se sono queste a essere lo sguardo preferenziale, la chiave di verità del mondo. Forse inevitabilmente l’odio di sé e del mondo si riverbera su chi è costretto a testimoniarlo. Tutti soffrono, ma le donne si avventano con forza e con coraggio contro le mistificazioni degli uomini, resistono con dignità, provano a portare la salvezza tra i mortali ma finiscono per rivelarne l’insalvabilità e il trionfo del male. L’altra interessante peculiarità di Melancholia è nella dialettica tra le due donne del film (ma non sottovalutiamo la terza, la Madre). Justine e Claire sono sorelle, ma appaiono diversissime. Justine è depressa, il suo male interiore divora tutto, la priva della forza vitale, invade ogni evento e ogni momento della sua vita, la debilita fisicamente, costringendola a letto, inabile. Claire guarda al mondo con speranza, è sposata a un uomo ricco, colto e ottimista e si è adeguata a conformarsi alla scienza positiva di lui, pur con difficoltà e incertezze. Le due sorelle sono riflessi diversi della stessa donna di von Trier: il tormentoso tentativo di adeguamento al mondo e la rivelazione del male. Justine e Claire sono il risultato di un esperimento di isolamento e semplificazione della didascalica del Nostro: una è Grace che vuole fuggire dal Padre e integrarsi in Dogville; l’altra è Grace che torna dal Padre e ordina la distruzione di Dogville; una è Grace che vuole liberare gli schiavi di Manderlay e dare loro delle leggi giuste; l’altra è Grace che rimette le catene ai neri e li prende a frustate; una è Selma che si dona ingenuamente agli altri; l’altra è Selma che testimonia col suo martirio l’inferno degli altri; una è Lei, che s’affida alla scienza del marito per curare il proprio dolore; l’altra è ancora Lei, strega, che cerca di uccidere il marito e svelare il dominio del maligno. A ben vedere, Justine e Claire sono questo e quello, entrambe, scambievolmente. Il loro rapporto è un gioco di rimandi e di scambio dei ruoli. In un’intervista, von Trier ha detto che i personaggi delle due sorelle del film gli sarebbero stati ispirati da Le Serve di Jean Genet. L’affermazione è, a prima vista, abbastanza peregrina. Nell’opera di Genet, le due sorelle, domestiche a casa della Signora, mettono in scena ogni sera l’assassinio della loro padrona. La amano e la odiano, l’ammirano e l’invidiano, la disprezzano e la vogliono annientare. Finiscono per scrivere false lettere di accusa per mandare in galera il Signore, ma quando il loro inganno rischia di essere scoperto, decidono di realizzare sul serio il delitto tante volte recitato. Falliscono, però, e non riescono a uccidere la Signora. In un’estrema messinscena, quindi, una di loro interpreta la Signora fino in fondo, bevendo il veleno a lei destinato. L’altra finirà sicuramente in carcere ma porterà la sorella dentro di sé.

Il parallelo tra Justine e Claire, da un lato, e Solange e Claire (il nome è identico, sì) dall’altro, sembra effimero. Ma nasconde proprio l’essenza del rapporto tra le sorelle di Melancholia: una falsificazione di ruoli, uno scambio di identità che nasconde un’unica identità. Nella prima parte del film, intitolata a Justine, è quest’ultima a sperimentare l’inagibilità del mondo. Il tentativo di inserirsi nei riti borghesi e nella esattezza e prevedibilità della scienza civile non funziona: la limousine non entra nella stradina, il ricevimento va in malora, la gioia apparente sprofonda nella disperazione, l’unione matrimoniale è subito rotta, il lavoro al servizio del commercio è una finzione mal digerita e la suprema consapevolezza affiora – Justine conosce le cose, sa il numero esatto dei fagioli nel contenitore, è altra rispetto al mondo in cui non riesce a inserirsi. Nella seconda parte del film, intitolata a Claire, è quest’ultima a veder sgretolato, progressivamente, il suo legame con un mondo che credeva fermo e sicuro ma che invece corre verso la rovina. Prima sicura di sé e fiera dell’appoggio del marito – astronomo dilettante, borghese illuminista, fiducioso nei calcoli degli scienziati; poi distrutta dalla progressiva consapevolezza che quella scienza è fallace e fallimentare (distrutta ma forte abbastanza per resistere con dignità, a differenza del ridicolo marito). Nella prima parte, invece, Claire è la perfetta padrona di casa, l’impeccabile dama borghese che organizza ricevimenti, accoglie gli ospiti, ordina le relazioni sociali, improntandole alla fruttuosità positiva e all’ottimismo. Mentre Justine, nella seconda parte, abbandona i suoi tratti sovversivi: non è più in lotta col mondo, perché il mondo le ha dato ragione e ha ammesso la propria estinzione. Justine è serena e sorridente, in possesso di una verità terribile ma, nella sua ineluttabilità, solida e pacifica. Come le sorelle serve di Genet, Justine e Claire impersonano ora una ora l’altra faccia della medesima donna. Ed entrambe, in Genet, impersonano l’amata-odiata Madame – così come le donne di von Trier si mettono alla prova nella messinscena del mondo borghese. Tutte e quattro s’immolano, a ben vedere, in un’estrema impersonificazione di un mondo morente: Justine avrà pure ragione contro il mondo, ma ne fa inevitabilmente parte e muore con esso.

La sapienza apocalittica di Justine si trasmette per via matrilineare. Di donna in donna, la rivelazione è tramandata, custodita e testimoniata con la sofferenza del corpo e dello spirito. L’intervento della madre di Justine, Gaby, interpretata da Charlotte Rampling, è fulminante ed esemplare: anche lei sa e anche lei è in rotta coi riti di quel mondo e col mondo stesso. Il matrimonio la disgusta, il mondo la disgusta. L’eredità è chiara e la rivelazione passa da Gaby a Justine così com’era passata da Bess a Karen, a Selma, a Grace, fino a rarefarsi in puro concetto nella donna strega di Antichrist, simbolo femminino senza nome, custode dello scandalo. La tradizione matrilineare giunge però anche a Claire, che forse è – più di Justine – la vera erede delle eroine di von Trier. È Claire, infatti, a tentare ingenuamente il più genuino approccio positivo al mondo (come Bess, come Selma, come Grace); è Claire a fidarsi degli uomini e della loro scienza; è Claire a mettere in scena il rituale civile, a provarci, a impersonare Madame (con amore e con odio). Ed è Claire, infine, che muore davvero – perché la sorella, Justine, era già morta da sempre. È quindi un enorme malinteso, quello della misoginia di von Trier. Come lo è – in un parallelo apparentemente azzardato – nel caso di Quentin Tarantino. Autori diversissimi che però mettono in scena con la stessa insistenza e con apparente compiacimento le efferate peripezie delle loro eroine. Che però, vittoriose o sconfitte, sfidano il mondo, sovrastano i loro antagonisti e custodiscono la verità dell’opera e, forse, dell’esistenza stessa – anche quando quella verità è (auto)distruttiva o è invece un’anatomia del vuoto infinitamente autoreferenziale. Forse allo spettatore distratto può sfuggire, ma Bess, Selma, Mia, Jackie, Grace, Beatrix, Abernathy, Justine, Shosanna e Claire sanno di essere amate.

Dopo aver “curato” la propria depressione con Antichrist, la melancholia/melanconia (per Freud uno stato depressivo insanabile, poiché non legato a un evento scatenante) di von Trier trova voce in un’opera in parte ispirata alla commedia “The maids” di Jean Genet e, figurativamente, ai preraffaelliti e Bruegel. Provocatoriamente aperta (come Antichrist) da un meraviglioso video musicale (il preludio al "Tristano e Isotta” di Wagner: note commosse, scelte per connotare per tutto il film la melanconia) che, in modo evocativo, contiene già tutta la pellicola a venire fra ralenti estremi e Kirsten Dunst adagiata nell’acqua come l’Ofelia di John Everett Millais, questa seduta terapeutica si divide in due parti con il nome delle due (antitetiche) sorelle protagoniste, da leggere anche come l’incontro di materia e antimateria, della Terra (la Vita, cioè Claire-Charlotte Gainsbourg che cura la depressione della sorella e possiede giù una famiglia propria) e di Melancholia (il pianeta distruttore: è Justine che, con la sua “malattia”, rischia di minare le solida fondamenta della famiglia). Una prima parte tutta concentrata sul matrimonio, con macchina a mano e Dogma, sorta di Festen in cui il giorno più felice per la sposa diventa teatro del suo lento scomparire, ingannevolmente attribuito dal regista a un padre inaffidabile o a una madre arcigna e misantropa ma che, invece, è melanconia che opera sotterranea, anche in modo crudele, a prescindere dall’amore che la circonda. Nella seconda parte, più tarkovskyana, c’è il film catastrofico-psicologico, dove il pianeta in arrivo è catalizzatore e allegoria della contrapposizione fra sorelle e dove Justine, abituata al dolore, agogna la Fine del Mondo ma sa anche affrontarla. Immagini potenti, metafore suadenti, esseri viventi messi alla prova in modo estremo: opera struggente, con un finale che è senz’altro il più bello mai realizzato nel filone “apocalittico”.