TRAMA
1994. Il giovane Amin, aspirante sceneggiatore che vive a Parigi, ritorna per l’estate nella città natale, nel sud della Francia. È l’occasione per ritrovare la famiglia e gli amici. Accompagnato da suo cugino Tony e dalla sua migliore amica Ophélie, Amin passa il tempo tra il ristorante tunisino dei genitori, i bar del quartiere e la spiaggia frequentata dalle ragazze in vacanza. Incantato dalle figure femminili che lo circondano, Amin resta soggiogato da queste sirene estive.
RECENSIONI
Fin dal titolo è già tutto chiaro. Mektoub, parola araba che indica il destino, la predestinazione, fissa da un lato il contesto antropologico e socio-culturale entro il quale si sviluppa il film (ancora una volta la comunità franco-tunisina), mentre dall’altro magnifica già la portata epica, singolarmente trascendentale del racconto. My Love invece inquadra la prospettiva, l’unica prospettiva possibile, una soggettiva (my) sull’amore (love) nell’ampiezza di tutte le sue declinazioni: come passione, desiderio, sensualità, speranza, attesa, febbricitante sospensione, frustrazione, ossessione, nostalgia, futuro. Una virgola maliziosa separa i due termini coordinandoli in un asindeto vitale: il mektoub e il mio amore, il mio mektoub èl’amore. Poi due punti, una porta aperta – Canto Uno, per inquadrarne la struttura a suo modo lirica e solenne, monumentale con l’orologio che non si arresta prima delle tre ore.
E il segnale di una numerazione (uno) che è già di per sé una promessa di futuro. L’epica sensoriale di Mektoub, My Love: Canto Uno è forse il punto più alto dell’opera di Abdellatif Kechiche e sembra rappresentarne al contempo la summa e la sublimazione. Del folgorante esordio Tutta colpa di Voltaire mutua lo sguardo candido del protagonista e la logica dell’incontro fra esseri umani come momento detonatore di speranze e frustrazioni; del magnifico La schivata ritiene invece la capacità di osservazione immersiva, l’inclinazione alla dolcezza, la conoscenza dello struggimento dell’infatuazione giovane. Come in Cous cous pone al centro la comunità franco-tunisina, universo eletto per l’esplorazione di potenti flussi vitali: gioia, vita, cibo, morte; come in Venere nera esercita una imposizione dello sguardo che diventa pratica registica in un processo di svelamento, di denudamento della realtà. E infine, immancabile, La vita di Adele, di cui riprende idealmente la dimensione erotica e sessuale.
Proprio La vita di Adele rappresenta un punto di partenza ottimale per discutere quest’ultimo lavoro del regista franco-tunisino. Innalzata istantaneamente al rango di capolavoro dalla vulgata critico-popolare, l’odissea sentimentale di Adele è in realtà un film enormemente problematico, la cui credibilità emotiva è minata alle fondamenta dallo sguardo stesso del regista: un occhio maschile/maschilista che racconta la sua versione erotizzata dell’amore lesbico, soggiogando il racconto ad esigenze fallocratiche più o meno evidenti e culminando in una scena di sesso al limite dell’aberrante (e c’è chi aveva avuto da ridire sul corpo esposto della Venera Nera…). Mektoub, My Love: Canto Uno, forse volutamente, riprende le fila del discorso proprio da questo punto: una scena di sesso esplicito subito nei primi minuti del film, ripresa a ridosso dei corpi senza celarne i dettagli. Ma se lo sguardo è sempre profondamente maschile, la prospettiva è totalmente diversa: sessualmente schierata, ma sincera. Lo sguardo del regista (e quindi il nostro) si allinea a quello del protagonista, Amin, che spia dalla finestra il rapporto eterosessuale fra il cugino Tony (il suo doppio e il suo contrario) e la migliore amica Ophélie (da qui in poi, il frutto proibito). In altre parole, Kechiche asserisce apertamente, fin dalle prime battute, la messa in scena di una visione dichiaratamente voyeuristica, maschile e eterosessuale. Ma questa, proprio per le sue caratteristiche, è forse l’unica visione genuina di fatto possibile. È la visione del regista, sincero con se stesso e con le proprie esperienze di vita, i propri desideri e ossessioni erotiche, che ci parla di qualcosa di vivo, vitale, conosciuto in prima persona, reale.
Kechiche prende dunque coraggio e slancio, e si lascia trasportare nel maelstrom di un’opera magna che riduce al minimo la narrazione per lasciarsi dominare dal sentimento, dalle sensazioni, dagli impulsi. È un film di dispositivo, ma è soprattutto un film di puro sguardo. Sguardo sui corpi, sui giovani corpi, sul culto dei corpi in fiore. Sguardo sulle natiche femminili, una magnifica ossessione, esaltate nella loro pienezza, nella loro rotondità, nel loro ritmo, nel loro incanto magnetico. Sguardo sui volti di una gioventù semplice e meravigliosa, incarnazione di un’arcadia delle estati passate: le labbra carnose e ingenue di Amin, gli occhi stregati di Toni, i lineamenti dolci e avvolgenti della splendida Ophélie. Eppure, dopo l’inizio esplicito, seppur lo sguardo rimanga costantemente desiderante, la tensione erotica non arriva più a concretizzarsi in un atto fisico esplicito. Perché oltre alla celebrazione del corpo e dell’estasi del corpo erotizzato, c’è tutta l’ossessione per il corpo come reliquia santa da anelare e, parallelamente, c’è la frustrazione di non potere / volere / sapere come toccare. A differenza di Adele, infatti, Amin è un personaggio fondamentalmente passivo, che difficilmente richiama all’identificazione nel modo viscerale che ha fatto la fortuna del film precedente. Amin si muove silenzioso fra le situazioni, è un puro portatore dello sguardo. Data la sua incapacità ad agire, porta con sé il senso nostalgico e sordamente lancinante delle occasioni perdute, dei desideri inespressi, dell’incapacità di cogliere le situazioni. Eppure Amin c’è, è nella vita, sa di poterla afferrare: in tempo (quasi) reale, fissa/fissiamo la nascita di un agnellino dal corpo maestoso della madre pecora, che compie il miracolo. Amin è nella vita, a suo modo, col suo tempo. Stacco. Discoteca, musica assordante e per quasi trenta minuti ininterrotti cantiamo, balliamo, ci urliamo nelle orecchie. Due celebrazioni, ugualmente commoventi, della vita.
Incurante della durata e delle regole del racconto razionale, Mektoub, My Love: Canto Uno è un’opera trascinante che si innalza al rango di esperienza emotiva e sensoriale. È un film sull’esserci, in un determinato posto, in un determinato momento – in un determinato sentimento del tempo. Essere giovani d’estate al mare, con gli amici di una vita a rincorrersi in spiaggia, sondando la possibilità di un nuovo amore. Giochi, risate, chiacchiere al bar, balli in discoteca, baci rubati. Un film struggente sul desiderio, sulla nostalgia del desiderio, sul nostalgico desiderare di essere, di esserci. Un film sulla vita. Un film nella vita. Un film-vita.
PRIMA DELL'AMORE
Dopo la vita, il destino (mektoub) e l’amore. Ma il titolo contiene un’antifrasi: non c’è amore nel primo atto di Mektoub, My Love. Se il personaggio de La schivata, Krimo, si innamora di Lydia vedendola in abito di scena, qui accade il contrario: i costumi sono già la propria pelle, le maschere sociali della giovinezza, e il protagonista non si innamora di nessuno. Amin è un wannabe fuori luogo, fotografo e aspirante sceneggiatore, futuro artista davanti alla logica epidermica dell’adolescenza. Egli rifiuta la retorica del teen movie estivo, gli sfioramenti e i baci tra ragazzi, lo sciocco prendersi e lasciarsi: il suo obiettivo è trattenere l’immagine. Davanti al perenne movimento dei corpi allestito da Kechiche, davanti agli antipodi di due donne opposte, il giovane non bacia mentre gli altri si baciano continuamente e così tiene ferma la sua ambizione: fotografare, ovvero osservare la realtà attraverso il filtro della costruzione dell’immagine. Imprimere quella realtà in un quadro. Ed ecco perché il film deve mostrare il corpo, non può lasciarlo, si mantiene su questo e lo eleva al cubo: per mettere in iperbole il contesto da cui Amin si sente estraneo. La prima parte della trilogia si offre così come movimento del protagonista alla ricerca dell’essenziale: non sarà facile né definitivo, perché ottenere l’immagine è il risultato di un lungo appostamento, di una notte solitaria in cui si attende un parto e ne arrivano due. Lo sbocciare dell’artista Amin è frutto di una tecnica, wisemaniana, che prevede il posizionamento in un luogo, l’apertura dell’occhio e una lunga attesa per trovare l’attimo: Amin, in modo documentario, guadagna l’istante e poi scatta. Per questo la sequenza del parto funziona come negativo della macroscena in discoteca: l’essenziale contro il frivolo, il momento contro il trascinamento, il click contro il flusso.
C’è uno iato tra pubblico e privato, tra dovere e volere essere: non a caso al ritorno nel locale il parto sarà liquidato con una battuta superficiale, diverrà storia da bancone. Qui, ancora, l’unico copione è sempre nei corpi. Circondato dal rumore esterno, Amin è come Emma che iniziava a disegnare Adele: un volere essere artista, traccia biografica del naturalista Kechiche che ricostruisce il reale con la sua riscrittura, la pittura e la fotografia come il cinema. Al contrario della Vita di Adele, però, qui non c’è l’incrocio delle protagoniste, il primo incontro per strada e il contatto di sguardi: in Canto Uno le due ipotesi d’amore di Amin sono pari e irrisolte, non prendono forma, scolorano nella corrente superficiale della giovinezza. «Come si dice amare in arabo? L’importante non è dirlo, ma amarsi», afferma Hafsia Herzi, attrice di Cous Cous, autrice di quella danza del ventre che oggi è cresciuta. E coglie il punto della questione, l’ambizione di allontanarsi dal linguaggio per arrivare alla sostanza, che qui - però - non è ancora possibile. Perché in questo tassello ambientato negli anni ’90 siamo agli albori, il tempo scorre o meglio inizia a scorrere, come simboleggiato dall’ex ballerina che interpreta la zia: per lei è già passato, per gli altri comincia adesso. Canto Uno si offre allora come incipit dilatato della Vita di Adele, come se il regista volesse inscenare cosa avviene prima dell’amore: in quello spazio, dove Adele non ha ancora incontrato Emma, dove Amin non ama nessuno, si iscrive questo film. Nelle serate sempre uguali, nel ballo estenuato, nella fluttuazione dell’adolescenza: ovvio che sia ripetitivo, è una preparazione all’amore, il primo passo dell’educazione di un giovane sulla strada dell’essenza.
Un altro Krimou (protagonista di La Schivata) schivo e innamorato, ancora la comunità maghrebina, la freschezza di un’immersione carnale nei volti, nei corpi, nelle recitazioni “spontanee”, ancora un assunto “filosofico” su cui danzare: in questo caso evanescente, tessuto su di un filo che unisce la citazione iniziale da Bibbia e Corano, salta tre ore di vuoto e trova una sponda nel finale aperto, quando il protagonista (che guarda Arsenale di Dovzhenko), diverso dagli altri perché non ama bere e sballarsi, forse trova l’anima gemella e s’allontana verso il tramonto. La morale, in una narrazione che vive di scene autosufficienti e di companatici vari sul balletto fra i sessi, è che il destino (mektoub, in arabo) illumina i percorsi ma solo quando pare a lui. Tutto qua? Se su trame esili e canti d’amore Kechiche ha costruito la carriera con talento e personalità, in questo caso riduce oltremodo la sostanza tratta, alla larga, da “La ferita, quella vera”, dell’insegnante de La Classe François Bégaudeau. Per tre ore infinite, il canto uno è dedicato, volutamente e incoerentemente, alla messinscena di ciò che più è lontano da Amin, e assume il suo stesso sorriso ebete nell’osservare corpi che scopano, ballano e si ubriacano all’insegna della promiscuità. Tutto qua? No, c’è anche il motivo dell’impiastro sfigato che riceve le confidenze di tutte. Nella noia generata da un’opera orgogliosa di essere vacua e fatua, non resta che l’immane talento del regista nel cogliere gli esseri umani con naturalezza (perduta nella versione doppiata) e, in questo caso come nel precedente La Vita di Adele, la freschezza e joie de vivre della giovinezza. Scanso equivoci: qui non abita Rohmer, la sua eleganza (rifuggita volutamente), i suoi racconti morali.