TRAMA
E’ il 1845, sono i primi giorni dell’Oregon Trail, e una carovana di tre famiglie ha assuto la guida Stephen Meek affinché li accompagni fino alle montagne di Cascade. Affermando di conoscere una scorciatoia, Meek guida il gruppo su un sentiero non tracciato, attraverso un deserto sugli altipiani, per perdersi tra le rocce aride e l’artemisia. Nei giorni seguenti, gli emigranti devono affrontare fame, sete e la reciproca mancanza di fiducia negli istinti di sopravvivenza. Quando un nativo americano incrocia la loro via, il gruppo è indeciso tra riporre la fiducia in una guida che si è dimostrata inaffidabile o in un uomo che hanno sempre considerato un naturale nemico. (dal pressbook del film).
RECENSIONI
Il western classico, in quanto genere adibito alla rappresentazione del Mito della fondazione, è stato territorio fertile di demistificazione: colpirlo al cuore per colpire l'America, colpirlo per svelare ipocrisie radificate, secolari convenzioni tramutate in luoghi comuni da narrazioni rituali, convinzioni reiterate in racconti, calcificate da film in serie. Per questo, nei dintorni dei 70ies e dei suoi sommovimenti politici e culturali, il western è stato territorio di un'esplicita rivalutazione dell'Altro (già presente in nuce nelle opere di grandi cineasti come Ford, il cui ultimo western, Il grande sentiero, aprirà una stagione di revisione nei confronti dei pellerossa), mezzo simbolico di restituzione di dignità al nemico sterminato, luogo di riflessione sulla ciclicità dell'errore (Nessuna pietà per Ulzana, con i suoi indigeni parenti dei Viet-Cong), Mito al crepuscolo (Sfida nell'Alta Sierra), condannato al massacro (Il mucchio selvaggio), smantellato sino all'astrazione metafisica (gli straordinari Le colline blu e La sparatoria), scarnificato sino a farne una lacerante parabola anti-capitalista (I compari).
Meek's cutoff è prossimo a queste rivisitazioni anni 70, opera che mira a destrutturare una retorica fondativa per guardare all'oggi, lontana da elegie per valori che furono (da Eastwood a Costner) e da potpourri di contaminazioni post-tutto (da Carpenter a Raimi). La Reichardt (di cui, grazie al TFF, abbiamo già apprezzato i notevoli Old Joy e Wendy & Lucy) annichilisce l'azione, prediligendo agli eventi i particolari, la costruzione della tensione emotiva tramite i dettagli, l'affestellarsi di incrinature nelle relazioni umane, l'immensità del paesaggio a sovrastare l'individuo, a farsi teatro di un gioco al massacro continuamente soffocato, luogo astratto, inferno interiore tangibile nel segno di Hellman. Il rigore estetico punisce coerentemente ogni pretesa spettacolare, il western è nudo: formato paradossale, 1:33, inadeguato alla vastità del deserto, commisurato a volti che invece stentano a imporsi, confusi in campi lunghi che dominano la parte iniziale del film, castigati in costumi avversi all'altissimo coefficiente divistico del cast: la contemplazione del paesaggio domina, per la prima mezz'ora, poi il fattore umano si fa spazio (letteralmente, verrebbe da dire), sino al primo piano sullo sguardo finale di Emily (Michelle Williams: un'attrice straordinaria). La forma del Mito, incarnato da Meek, si confronta con un minuzioso realismo, che ne mette a nudo le fragilità, sino ad annullare ogni consolidata certezza retorica. Meek's cutoff, film fuori dai tempi che gli sarebbero propri, è la messa in dubbio di questo Mito, al cuore dell'America è sottratta ogni certezza. Il finale conferma: qui si pongono domande. Le risposte, quelle, sono state date troppo spesso.

L’americana Kelly Reichardt continua il suo personale percorso di ricerca che utilizza il mezzo cinematografico per indagare il paesaggio americano e i suoi abitanti. L’ordine non è casuale, perché il più delle volte sono proprio i luoghi, più dei personaggi, a parlare e a comunicare. Succedeva in Old Joy, in cui lo spunto era l’incontro a distanza di anni tra due amici di vecchia data che decidono di concedersi qualche giorno nelle foreste dell’Oregon, e accade anche in Meek’s Cutoff. Il soggetto vede tre nuclei familiari in cammino, con il loro carro, verso un futuro che sognano migliore, tra immensi paesaggi desertici (ancora dell’Oregon). Siamo nel 1845, agli albori della cultura della frontiera americana, in cui i pionieri lottavano contro le forze selvagge della natura per redimere l’Ovest alle leggi dell’America civilizzata. Ma non è il mito dell’epopea ad attrarre la Reichardt, e lo dichiara esplicitamente fin dall’inizio scegliendo un formato 4/3 che non nega la bellezza del paesaggio, ma ne ridimensiona l’impatto spettacolare. È infatti il sentire dei personaggi, portatori inconsapevoli del mito e di cui il paesaggio amplifica il disagio, a interessare la regista. Uomini e donne che non si interrogano sulla loro quotidianità, non ne hanno il tempo e nemmeno gli strumenti, ma la vivono in prima persona. Non ci sono riflessioni esistenziali, quindi, nell’umanità messa in scena, ma uno spirito di sopravvivenza che trasforma il pensiero in azione. La visione della Reichardt limita al minimo il dialogo, rende spesso irriconoscibili i personaggi, vestiti in modo simile, non ripresi quasi mai in primo piano e costantemente sospinti al confronto con una natura splendida e feroce. Al centro del racconto c’è il vento che non smette di soffiare, il sole che acceca il giorno, il buio che spegne la razionalità, l’acqua che rappresenta un miraggio di salvezza e scorre solo all’inizio, il deserto che uniforma il paesaggio e condiziona gli stati d’animo impedendo qualunque via di fuga. Tutto è piatto, difficile, lontano. Più dell’evoluzione dell’esile soggetto la regista si concentra sui suoni, spesso fissi e prolungati, capaci di insinuare l’inquietudine, e sui rumori d’ambiente, sia della natura che del quotidiano (una ciotola lavata nell’acqua, un cucchiaio che raschia un piatto, un coltello che segna un legno). Tale minimalismo contemplativo entra in conflitto con le esigenze del racconto. Esigenze lecite, date le premesse che comunque pongono interrogativi, e disattese alla luce della chiusa che non va nella direzione che ci si aspetta. Scelta forzata ma incisiva, perché avrebbe distolto da ciò che evidentemente preme alla regista. Poco importa, quindi, che l’indiano sia buono oppure no. L’importante è che la sua presenza abbia comportato un’evoluzione nella percezione dell’altro da parte dei personaggi. L’acqua potrà essere vicina o lontana, ma nulla, in ogni caso, sarà più come prima. Ed è da questi piccoli passi, la Reichardt ci fa intendere, più che dai grandi eventi a essi conseguenti, che ha preso forma l’America come la conosciamo oggi.
