Drammatico

MEDUSE

TRAMA

Storie a Tel Aviv. Una coppia è accidentalmente costretta a passare la luna di miele in un albergo. Una cameriera di catering per matrimoni perde il posto di lavoro ma trova un’amica e una bambina con un salvagente. Un’immigrata filippina si adatta a fare la badante fino a risvegliare l’umanità sopita in un’anziana acidissima. Storie a Tel Aviv.

RECENSIONI

Diretto da Shira Geffen e scritto dalla stessa Geffen insieme al compagno Etgar Keret, Meduse è una pellicola che tiene urticantemente fede al suo titolo. A circa metà del film, Batya (Sarah Adler), una delle figure principali di questa ronde agrodolce esclama “non mi piacciono molto le trame”, esplicitando letteralmente la concezione che informa (e deforma) Meduse. Corre l’obbligo di segnalare che l’approccio visivo sarebbe tutt’altro che trascurabile e irrilevante: una commistione improbabile ma piuttosto suggestiva tra la stralunata bizzarria di Kaurismäki e il toccante pudore di Ozon (quello di Sotto la sabbia o Il tempo che resta per intenderci). Tuttavia questa curiosa e in qualche modo seducente combinazione è al servizio di uno script che accatasta scriteriatamente, per quantità e densità, simboli su simboli, che a loro volta appoggiano il proprio peso su qualcosa che - ohibò! - non sarebbe azzardato definire l’insostenibile leggerezza dell’essere. Di fronte a una concentrazione (o diluizione, è esattamente la stessa cosa) di precipitati simbolici e metaforici così congestionanti si fatica a prendere sul serio, persino quando il serio si identifica con l’ironico, la progressione drammatica, disinteressandosi sostanzialmente dell’accidentale susseguirsi di piccoli sbandamenti (la partenza di un fidanzato), medie derive (un licenziamento) e grandi tragedie (addirittura un suicidio). Il tutto coagulandosi approssimativamente attorno a un’idea di cinema non ancora in grado di organizzarsi in progetto espressivo. Non è dunque la tanto vituperata trama che fa difetto a Meduse, ma la propensione della sostanza manipolata a oggettivarsi in testo filmico, la disponibilità del dato simbolico a farsi cinema, in una parola. Stante l’inconsistenza stilistica del film, i momenti più lievi e incisivi di Meduse si collocano ovviamente laddove le situazioni non necessitano di un costrutto sintattico elaborato per produrre senso, ma, al contrario, si rivolgono direttamente, puntualmente, allo spettatore (penso ad esempio all’incursione cialtronesca del padrone di casa nell’appartamento di Batya e alla gag in cui lei beve l’acqua che cola dal soffitto). Oppure quando il commento musicale, dispensato con parsimoniosa raffinatezza, attraversa, irrora le immagini, quasi fecondandole. Anche la capacità di dipingere personaggi antipatici e potenzialmente detestabili (la madre di Galia, Galia stessa, l’aspirante sposa del padre di Batya) non regge fino in fondo, cedendo alle lusinghe del pietismo e dell’affetto estorto a colpi bassi. Irritando senza disturbare, indispettendo senza mettere con le spalle al muro. Girato in punta di cinepresa (nessun premio quanto la Caméra d’or si addice a questa leziosa operina), Meduse urtica effettivamente, ma dopo 78 minuti non lascia alcuna traccia. Nemmeno un rossore.

Etgar Keret e Shira Geffen, marito e moglie nella vita, rivoltano lo scenario politico di Gitai e mostrano l’altra faccia cinematografica di Israele; l’intreccio corale che, seguendo figure in librazione come meduse, finisce per sbattere nell’attualità perlomeno in filigrana. Le rispettive povertà dei personaggi, i rapporti parentali eternamente difficoltosi, la dose massiccia di dolori sottintesi sono le virgole di un discorso imploso ma lucidamente presente; e se il riferimento è ai soliti numi (Altman, sempre lui), l’opera centra il bersaglio quando sfoglia le minuzie del quotidiano e si fa minimalista (mi riferisco all’episodio di Batya, il migliore, che nella bimba/sirena incontra la proiezione del proprio passato) ma gira largamente a vuoto se avverte l’esigenza di poetizzare le sue piccole storie e rivestirle di abiti generali. L’episodio della donna filippina, variante sulla lontananza e integrazione del diverso, è una storiella che non diventa mai universale; l’abisso di coppia muove ai confini del ridondante (velo sul finale); resta benvenuta l’intenzione di cambiare lente e guardare l’arcinota questione sotto nuovi occhi, focalizzando sull’oscillazione di fatti minimi, ma gli addendi non fanno esattamente la somma memorabile.