TRAMA
Dopo esser scampato a un’impiccagione il bandito Burt e i suoi tre complici Phil, Theo e Mary, assaltano una diligenza con un carico d’oro e arrivano in una città totalmente disabitata dall’atmosfera lugubre e minacciosa. Qui si trovano a dover fare i conti con un ragazzo arrivato dall’Australia.
RECENSIONI
Nello sterminato novero dei western italiani (parliamo di più di 500 pellicole in uno spazio di circa 15 anni, dall’inizio degli anni ’60 fino a metà anni ’70, e in qualche raro caso anche oltre) si è visto praticamente di tutto, da una sorta di nuovo classicismo western incarnato dalle opere di Leone, Corbucci (che in realtà così classico non era), Sollima ai prodotti più inopinatamente contaminati e sperimentali. Proprio questi ultimi costituivano il tipico manufatto della cinematografia nazionale che tentava, rianagrammando storie, vicende e stilemi in codici di volta in volta rinnovabili, di coniugare l’aspetto irrinunciabilmente commerciale ad un côté – anche se non proprio in tutti i casi – più artistico e autoriale, visto che l’influenza delle nouvelles vagues europee si era irradiata endemicamente fino alle propaggini più estreme dei generi. Anzi, per quanto riguarda la cinematografia italica, l’attecchire dell’estetica delle “nuove onde” si scopre più fragrante proprio al livello dei generi, che non nel cosiddetto cinema d’autore. Tra questi western all’italiana di più vivo interesse dovremmo ricordarne a decine per il loro modo peculiare di ibridare linguaggi distanti e molto spesso eterogenei, e Matalo! di Cesare Canevari è forse quello più rappresentativo nell’esemplificare il lavoro di straordinaria sovversione effettuato sui cardini della grammatica cinematografica. Matalo! in effetti è il western che più di ogni altro presenta un corposo carnet di intersecazioni, sabotaggi, decostruzioni etc. pur essendo di fatto un inconsapevole remake di Dio non paga il sabato di Amerigo Anton (ovvero Tanio Boccia). Inconsapevole perché lo sceneggiatore Mino Roli non disse nulla a Canevari circa il fatto che lo script era già stato utilizzato per un altro film. Inutile dire che Matalo! diventa nelle mani del regista di Io, Emmanuelle un oggetto del tutto diverso, un film ricco di sbalestranti anomalie nel quale Canevari si diverte come un pazzo a rilanciare lo stesso principio di destrutturazione narrativa utilizzato per Una iena in cassaforte, lavorando dunque, a differenza del suo primo western Per un dollaro a Tucson si muore, di ben più mediocre fattura e assai più “normalizzato”, su spazi e tempi estremamente dilatati. La città fantasma nella quale giungono i quattro fuorilegge (ragazza compresa, una Claudia Gravy inguainata in una mise da pistolera dall’appeal davvero sinistro) e lo sventurato australiano (che entra nel vivo dell’azione solo a metà film) diventa il non-luogo di una prolungata allucinazione, una dimensione oniricamente rarefatta e stilizzata nella quale le cinque sagome che l’attraversano fungono da pretesto per la messa in rappresentazione di un deragliamento stilistico (in)controllato. Una volta plasmato lo spazio simbolico di una tabula rasa (lo schermo cinematografico) sul quale spargere il seme linguistico di un orgasmo espressivo colto all’apice della sua urgenza, le linee diegetiche e il relativo destino delle figure che abitano la mise en scene non ci interessano più del cartello infaticabilmente penzolante che reca l’iscrizione “Benson City”. Canevari raccoglie l’idea margheritiana (E Dio disse a Caino) di trasformare il western in un thriller a tinte gotiche, così dedica una buona mezz’ora di pellicola a una sorta di incubo notturno nel quale si assiste a perpetuate deambulazioni in interni interrotte dall’irrompere di frequenti primissimi piani di occhi “argentiani” che spiano l’accadere in un silenzio surreale che dura dall’inizio del film. Nel progressivo azzeramento dello spazio e del tempo di una psiche-cinema che si sta sognando generando materia visiva, silhouette clownesche e lunari come un kinskiano Corrado Pani – che sparisce quasi inspiegabilmente dall’azione per poi tornare nell’inquietante finale – e un Lou Castel non nuovo alle esperienze dell’italico western contribuiscono a fendere un quadro ormai scontornato e di impalpabile onirismo, composto di sonorità psichedeliche (l’amalgama elettronico mescolato da Mario Migliardi) attraversato dalla stupefacente improbabilità delle traiettorie in soggettiva dei boomerang (?), fino alla genialità del redde rationem nelle sequenze della sparatoria conclusiva che si smarriscono nella crudele assenza del fuoricampo. Imperdibile.
