Drammatico, Recensione, Thriller, Timvision

IL MAESTRO GIARDINIERE

Titolo OriginaleMaster Gardener
NazioneU.S.A., Australia
Anno Produzione2022
Durata111'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Narvel Roth è un esperto orticolturista incaricato del mantenimento dei giardini di una tenuta sudista appartenente alla ricca vedova Norma Haverhill. Quando quest’ultima gli affida la giovane nipote Maya, orfana ed arrivata alla tenuta per sfuggire a una storia di droga, rischia di far riemergere il passato violento che Narvel ha cercato per tutti quegli anni di lasciarsi alle spalle.

RECENSIONI

Introduzione, sviluppo e conclusione di un gesto. Tre finali differenti per tre film che si fanno eco l’un l’altro, una trilogia, così la definita Schrader stesso, che lascia dialogare e respirare all’unisono immagini che si completano tra di loro aggiungendo un tassello di volta in volta (“fa sempre lo stesso film” gli dicono come se, poi, fosse una colpa fare sempre lo stesso grande film). Il pastore bressoniano di First Reformed interpretato da Ethan Hawke che si avvolge nel filo spinato prima di baciare – in quello che sembra più che altro un atto immaginativo – Mary, l’angelo biondo (Amanda Seyfried) che è il simbolo di una speranza di espiazione. Le due dita di William Tell (Oscar Isaac) e La Linda (Tiffany Haddish) che non possono toccarsi perché separate dal vetro divisorio all’interno di un carcere ma che si proiettano strenuamente l’una verso l’altra ( Il collezionista di carte). E poi, infine, Master Gardener, il Narvel Roth interpretato da un oscuro Joel Edgerton, il capo giardiniere all’interno della grande tenuta di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), donna austera e malinconica, malata terminale che spera di poter tenere un ultimo grande ricevimento prima di lasciare per sempre i suoi fiori e le sue piante. La donna affida a Narvel la custodia della nipote venticinquenne, Maya, una giovane ragazza afroamericana con alle spalle una lunga dipendenza da droghe che l’anziana spera di aiutare mettendola al servizio del gruppo di lavoro capitanato da Narvel. I due, lentamente, intraprendono una storia d’amore considerata oscena dalla proprietaria terriera e che mette a nudo il passato del protagonista, un uomo che sulla pelle porta, letteralmente, i segni di una gioventù violenta e razzista (una lunga serie di tatuaggi inneggianti alla razza bianca, teschi e svastiche) e di cui il giardinaggio è diventato strumento terapeutico, espiatorio.

Se nei precedenti capitoli Schrader guidava lo spettatore all’interno del dramma interiore dei suoi personaggi (il diario del curato in First Reformed, le fotografie e le immagini dal carcere di Abu Ghraib) Master Gardener è un’opera che invita a una lettura sotto la luce di quella pelle nuda marchiata dall’inchiostro, di quei tatuaggi che rappresentano l’idea di colpa che Schrader scandaglia da cinquant’anni. Questo è un film di simboli sfacciati, duri, quasi sloganistici, esattamente come il capo sfoggiato da Maya nel mezzo della fotografia plumbea, curata ancora una volta da Alexander Dynan, durante il primo incontro con Narvel: una maglietta color arcobaleno su cui è stampato a caratteri cubitali un motto inneggiante alle “Good Vibes” e che dispone un contrasto estetico con l’abbigliamento dark di Edgerton, simile in tutto e per tutto a quello di un’ SS edulcorata che, però, decide di non uccidere, di non infliggere e non infliggersi dolore, di lasciarsi trasportare definitivamente da quella danza dolce e sensuale – eccolo, il terzo finale, il culmine della parabola gestuale – con cui i due amanti risolvono il film. Poco ha senso accusare Schrader di una presunta banalità dei simboli, come se lui stesso non fosse consapevole dell’evidenza di quello che è un chiaro e aperto manifesto poetico. Qui tutto è superficie, qui tutto è immagine. È il tentativo e il desiderio di sostituire la vita alla morte, l’amore al dolore, senza implicazioni, significati reconditi o doppi pensieri. È il romanticismo come atto di resistenza.