TRAMA
Mary va a trascorre le vacanze nella casa di campagna della prozia Charlotte. Nei boschi trova un magico fiore e una scopa volante, grazie ai quali approda al rinomato Endors College, università per streghe nascosta tra le nuvole, dove si cela un terribile segreto.
RECENSIONI
Senza troppi giri di parole, Mary e il fiore della strega è un film derivativo e sterile che poco funziona anche solo come omaggio alle grandi glorie dello studio Ghibli, in seno al quale il regista Hiromasa Yonebayashi (Arrietty e Quando c'era Marnie) e il produttore Yoshiaki Nishimura si sono formati. Così come la streghetta Mary si serve del libro Mastro (facile deus ex-machina, che contiene un incantesimo annulla-incantesimi, una sorta di undo magico) per sconfiggere Madame Mumblechook e il Dottor Dee, così il film sembra seguire – senza crederci – la formula ben collaudata del Maestro Miyazaki: prendere un romanzo anglosassone semi-sconosciuto (in questo caso La Piccola Scopa della scozzese Mary Stewart) con protagonista una bimba e un setting campestre, aggiungere un tocco di magia, animali multicolore, una strega sovrappeso, scagnozzi mascherati, allusioni antifasciste, qualche elemento ambientalista qua e là e il gioco è fatto. Ma come gli esperimenti magico-scientifici del Dottor Dee falliscono inspiegabilmente uno dietro l'altro, anche questa creatura filmica è destinata alla débâcle. Si tratta del primo film del nuovo studio nipponico Ponoc - fondato nel 2015 dal duo sopracitato in seguito alla chiusura del leggendario studio Ghibli - che sceglie la strada facile della citazione senza però peritarsi di infondere una propria identità estetica e narrativa all'universo creato, già di suo debitore della sempre anglosassone J.K. Rowling.
Atteggiamenti e gestualità tipicamente giapponesi smentiscono gli inglesissimi nomi dei personaggi con risultati spesso piuttosto stranianti, che rientrano nel rodato formulario “anime”, svuotato però di contenuti e sense of wonder. Lo stesso discorso è estendibile al character design, ancora meno ispirato del solito, che non va oltre le descrizioni dell'autrice del libro: Mary è una bambina dai capelli rossi, crespi e ribelli (che lei detesta), fattezze già di suo riconducibili a creature enigmatiche e maligne, e, come ripetuto fino alla noia nel film, tratti distinguibili di una strega estremamente potente; gatto nero (a cui si devono le controscene più riuscite del film) e scopa volante completano il quadro. Gli ibridi di animali, frutto degli esperimenti falliti, compongono un bestiario di clichè e déjà-vu, mentre i comprimari sono solo funzionali allo sviluppo dell'intreccio. In sostanza quello che manca è proprio l'elemento più miyazakiano di tutti, l'incanto, quella capacità di investire l'immaginazione degli spettatori che si perdono nell'universo creato, spesso senza neanche riuscire a seguire la trama, pur restandone conquistati. Yonebayashi sembra invece interessato esclusivamente a mettere in fila un evento dietro l'altro, realizzando un resoconto illustrato del romanzo, senza quella sensibilità coraggiosa che aveva dimostrato in Quando c'era Marnie, dove le due bimbe stringevano un rapporto simbiotico, ambiguo e struggente, ricco di sfumature.
L'impressione è che lo studio Ponoc, col suo primo film, abbia voluto rimarcare la propria affinità con lo studio Ghibli di cui si propone come naturale erede; un erede purtroppo anonimo e senz'anima. Se davvero si vuole riempire un trono rimasto vacante, un successore va cercato al di fuori della cerchia di cortigiani. Perchè non guardare a Makoto Shinkai, che col suo Your Name ha dimostrato di poter ben rivaleggiare col Maestro, pur su un campo di battaglia completamente diverso?
