TRAMA
Si gira THIS IS MY BLOOD sulla vita di Cristo: il regista affronta guai con i suoi contestatori, l’attrice, ossessionata da Maria Maddalena, si rifugia in Terra Santa. Il conduttore televisivo di uno show sulla vita del Messia sprofonda in una crisi coniugale.
RECENSIONI
Una pellicola stratificata che moltiplica il livello di lettura, una sonda dell’angoscia contemporanea: l’attore rimane per sempre nel suo personaggio, il conduttore scopre che le sue menzogne forse erano vere, il regista non vede proiettato il suo film. Sullo sfondo il fondamentalismo religioso sfiora appena la strada del terrorismo, si incontrano ma non si salutano per poi lasciarsi di nuovo.
Subito Ferrara moltiplica i piani, contamina la realtà nella finzione con il caratteristico “film nel film” (THE PASSION di Gibson è chiaramente citato), segue in parallelo l’evoluzione dei suoi personaggi calandoli in un misticismo di riporto: chi fu la Maddalena? Una puttana, la moglie di Cristo o il suo primo discepolo? Dubbio, questo, di relativo interesse dato che MARY si tuffa nella reazione mentale, la molla psicologica, la percezione religiosa e le sue derive nella sfaccettatura quotidiana: ma il simbolo non è genuino (la vergine Heather Graham che resta incinta), ogni corrispondenza troppo facile (una panoramica della Palestina oggi), gli incroci dei personaggi spesso inverosimili (la telefonata tra Marie e Ted) così come la loro evoluzione (la conversione di quest’ultimo). La negligenza di scrittura cala su tutto: il film imbocca molteplici strade per subito tralasciarle complice un minutaggio al minimo, confeziona innesti alieni e posticci (Marie a Gerusalemme), mostra l’enorme potenziale ma lo rende una bomba inesplosa. MARY è anche un film girato da dio, ritrovando negli squarci desolati di New York (invero una riconoscibilissima Roma) finalmente l’aria di casa del regista, fautore di una rabbia antica quasi evangelica; così come l’ammodernamento delle Sacre Scritture (tratto dall’Apocalisse) interviene nella memorabile sequenza finale, richiamando la chiusura di TERRA PROMESSA di Gitai, dove un sanguinoso Yom Kippur corrisponde in Occidente all’irrazionale e fagocitante timore dell’attentato. Nella sala svuotata dal terrore un regista pazzo proietta il film solo per sé stesso.
In una prova assolutamente variegata Modine si colloca sopra le righe, Whitaker ci sa fare (mi piace ricordarlo in GHOST DOG) ma sconfina fuori ruolo nel lagnoso intimismo del suo personaggio, la Graham è consueta delizia mentre una Binoche al minimo resta in filigrana. Il film sbagliato di un grande regista.
Finale di Blackout: inseguendo la radice sacra delle proprie ossessioni, Matty si abbandona all’oscura immensità del mare. Incipit di Mary: uno spiraglio di luce sorprende Maddalena all’interno del Sepolcro, illuminandola dolcemente. “Perché cerchi tra i morti colui che è vivo?” le domanda l’angelo dal volto mefistofelico, palese mascheramento di Abel. Uscire dalle tenebre, cercare tra i vivi, credere: è lampante, nella poetica del regista italoamericano è avvenuto un cambiamento impressionante, una trasformazione sconvolgente, un rovesciamento radicale culminante in un puro, ingiudicabile gesto d’amore.
“Io vi parlerò ora di ciò che non avete udito” dice Maddalena ai discepoli che stentano a crederle. “Io vi mostrerò ora ciò che non avete visto” enuncia Ferrara agli spettatori altrettanto increduli. È un nuovo cinema quello che si apre con Mary: un cinema in cui all’oscurità subentra la luce, in cui il cupio dissolvi lascia spazio all’amor infiniti, un cinema nel quale Bataille cede il passo ai Vangeli (ovviamente apocrifi). Se questa sterzata produrrà opere all’altezza delle precedenti non è ancora dato sapere. Per ora assistiamo ad una rilettura inevitabilmente irrisolta e confusa della filmografia ferrariana, una sorta di palinodia barcollante, di summa insubordinata e vacillante. In Mary confluiscono, cambiando di segno, brandelli provenienti da tutti i suoi film: la divorante ansia di redenzione di King of New York, la religiosità straziata del Cattivo tenente, la febbrile riflessione etica di The Addiction, le interferenze metafilmiche di Occhi di serpente e, soprattutto, il cieco precipitare verso la perdita di Blackout. Ebbene, queste schegge laceranti diventano ora tracce di speranza, prospettive di salvezza, frammenti di un disarmante affresco amoroso (“Il mio film parla solo d’amore”, sussurra il regista Tony Childress, evidente parodia – ma fino a che punto? – dello stesso Ferrara).
Mary è insomma una pellicola-palinsesto, una successione precipite di fotogrammi raschiati sui quali sono stati impressi nuovi segni (“Un disegno è stato cancellato, in virtù di un più alto disegno”, ancora Maddalena). Mary è un film a un passo dalla visione interiore (“E' la mente che vede la visione”), a un passo dalla scintilla divina che risiede nell’uomo (suggestioni gnostiche?), a un passo dal silenzio colmo di senso (“Io ora entro nel silenzio”). Mary è una sfacciata dichiarazione di amore per il cinema. Pronunciata nonostante tutto: “Il pubblico sta lasciando il cinema, il regista si sta dirigendo in sala”.
proposizione 5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
proposizione 6.522 Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus
È un paesaggio visivo e sonoro (soprattutto) scomposto, sovrapposto, una superficie stratigrafica, pericolosamente laminata, la pellicola nella quale Abel Ferrara consacra e dissacra le sue anime dimessamente infiammate, attraversate dalla tragedia che quotidianamente sfiora, sfrangia, percuote queste esistenze indicibilmente “addette” al dolore. È una con-fusione di piani, uno scollamento di bergmaniane campiture monocrome come le vite che si contorcono intorno al canovaccio flessuoso, scoordinato, sempiterno, della commedia umana, laddove l’entropia testuale diviene volontà di deragliamento controllato da figure stilistico-espressive come la farragine che ne rende anche la fatica del venire alla forma, del farsi discorso di un senso del sacro presente e pesante (come in tutta l’opera di Ferrara), zona kierkegaardianamente liminare e oscura tra il salvifico e l’abissale. Mary si configura, proprio grazie a una messa in scena continuamente riamalgamata e con-fusa da questi elementi, come una catabasi senza scampo, un lento sprofondamento nelle viscere dell’essere, una discesa senza possibilità di risalita (o forse sì, ma solo per ridiscendere di nuovo nell’abisso, in un eterno ciclo di tantalica insensatezza) nello schättenreich, nell’umbratile regno delle menzogne dell’immagine e dei suoi surrogati mediatici (i giornali, la tv, il cinema). La dimensione del sacro, nella sua ineffabilità e inattingibilità e ciò che sta dietro le cose, come queste a loro volta stanno dietro i simulacri che le significano, le rendono visibili e insieme le nascondono, ineluttabilmente. Smarrirsi nel mondo significa ancora una volta smarrirsi nel mondo delle immagini (il conduttore televisivo Ted Younger e le sue facili conversioni domestico-catodiche, il regista Tony Childress e il suo falso messianesimo dell’artista mercimonioso). Marie Palesi, Mary, la Maddalena, metamorfosi mistica, psichica, con(-)fuse derive attanziali, la puttana e la santa, ovvero ciò che tutti noi siamo, che decide apocrifamente (ma chi stabilisce e chi garantisce il contrassegno dell’apocrifo?) di abbandonare l’effimera sostanza di cui sono fatte le immagini per riattingere l’autenticità perduta delle cose sembra al centro di questa centrifuga visiva senza centri. Un film f(r)atto di silenzi drammatici (Bergman di nuovo) di una divinità che forse non c’è (più) o non è in ascolto (il crocefisso, buio, collocato in controcampi distanzianti, in piani spazio-temporali apparentemente attigui ma profondamente e dolentemente sfasati, è simbolo di un’atrocità lontana e dimenticata, che non comunica più col presente se non ristabilendo lancinate metonimie con la condizione di sofferenza irrimediabilmente umana) che si mescolano alle invasive cacofonie del (dover) esistere quotidiano e alle grida mute di anime in preda a smarrimenti esistenziali (“Mi ero perso, e non sapevo più dove cercarmi”) in cui bisogna necessariamente perdersi per ritrovarsi. Film di meravigliosa e costitutiva imperfezione (tratto, tra l’altro, peculiare della cinematografia ferrariana), disseminato di innumerevoli concessioni allo sviamento visuale e risibilmente concettuale (la verità in imagine delle cose, la verità storico-fattuale degli eventi, la verità intima di una religione) che gioca impietosamente col nostro voler accedere alla visione perfetta, alla struttura saldamente solidificata, alla narrazione credibile, alla rappresentazione compatta, all’opera compiuta. Fioca visione sepolcrale, abisso allucinato oltre il pelago dell’oscurità mentale (The Blackout) nel mistico fluire della quale è lecito fare naufragio, perdendosi, abbandonandosi: il cinema. [È la mente che vede la visione (?)]