Biografico, Recensione, Sala

MARIA

Titolo OriginaleMaria
NazioneGermania, U.S.A,, Cile, Italia
Anno Produzione2024
Durata124'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La vita tumultuosa, bella e tragica della più grande cantante d’opera del mondo, rivissuta e reimmaginata durante i suoi ultimi giorni nella Parigi degli anni Settanta.

RECENSIONI

«Siamo greci: la morte è la nostra abituale compagna.»

Pablo Larraín con Maria conclude il ciclo di film biografici dedicati alle donne/icone del secondo ‘900. Dopo Jackie Kennedy e la sua intervista-confessione e Diana Spencer cristallizzata dentro le stanze vuote e raggelate del potere, tocca a Maria Callas. La divina. Larraín non realizza film biografici in senso stretto, ma ritratti intimi, inediti, pulsanti di vita e di morte. La narrazione onirica e ondivaga mescola illusione e realtà e confonde i piani di lettura. Sono ipotesi, probabilità, slanci che trovano nella costruzione vivificante del détournement e della trasfigurazione il senso critico-estetico dell’opera. Maria Callas, perduta ormai la voce, si aggira ectoplasmatica dentro il suo appartamento vuoto, vagando per le strade di una Parigi ambrata e autunnale degli anni ‘70. È una storia di fantasmi, vuoti affettivi e rimembranze. I ricordi d’infanzia - ad Atene durante la guerra e l’incontro in bianco e nero con Onassis - segnano il tempo, ormai perduto e lontanissimo della nostalgia e tracciano linee di un’esistenza sfuggente e impenetrabile. Larraín segue Maria nel suo girovagare ignoto, ripresa di spalle, guardata a distanza, scrutata, avvolta da un’aura tragica e incombente. Il corpo debilitato, la mente offuscata, divenuta ella stessa eroina tragica - vinta, abbandonata, perduta - Maria si offre in tutta la sua esiziale drammaticità. Larraín mette in correlazione il tempo filmico della rappresentazione con quello (a)storico della cornice biografica. La narrazione frammentata ed episodica libera il racconto dalle maglie rigide del didascalismo e offre un ritratto prismatico, seduttivo e sontuoso della più grande soprano di tutti i tempi. La sequenza in cui Angelina/Maria si imbatte nei passanti che, di colpo, si trasformano nel coro degli Zingari de Il Trovatore rappresenta la summa del film/opera che Larraín, da grande formalista, costruisce con perizia tecnica e struggente bellezza. In Maria il confine tra vero e verosimile si muove denso e sinuoso e costruisce sentieri, quadri e possibilità più che azioni saldate e concatenate tra loro. È fortissima l’impressione che sia Maria Callas, incarnata nel mito, ad incistarsi nel corpo ossificato e scheletrito di Angelina Jolie e non il contrario. Lo scivolamento delle due dive, l’una nell’altra, genera uno spaesamento che conduce ad una mimesi che bypassa la fedeltà estetica e tuttavia restituisce, attraverso una identificazione emotiva ed epidermica, la dimensione umana e spirituale. Il teatro-famedio dentro cui Maria prova a riacquistare la voce, luogo di esaltazione e dolore, diventa un non-luogo dove il passato e il presente si incontrano dentro un abbraccio straniante e straziante.