TRAMA
Marguerite e Julien de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, si amano. Finiranno, ovviamente, malissimo.
RECENSIONI
Alle prese, per la prima volta nella sua carriera, con un materiale non originale (una sceneggiatura predisposta da Jean Gruault per François Truffaut), Valérie Donzelli imbocca a testa bassa la strada del melodramma in costume, tentando di conciliarla con le amabili stravaganze che le sono care: l'epoca è storica ma volutamente indefinita (siamo sotto il regno di Enrico IV, ma i costumi sono per lo più ottocenteschi e non mancano cinematografo ed elicotteri), il racconto è denso di annotazioni bizzarre (la suocera 'iberica', affidata a una gigionesca Geraldine Chaplin) e soprattutto racchiuso da una cornice al tempo stesso epica e tragica (il coro delle orfanelle) che tra mappe, ombre cinesi e false piste dovrebbe rendere lieve e ancor più enigmatica la vicenda dei fratelli de Ravalet. Purtroppo, la messinscena risulta tradizionalissima, quasi intimorita dall'austera barbarie del soggetto, fin troppo ingessata in una generica correttezza che le sporadiche invenzioni (i 'quadri' che si svelano immobili per poi animarsi di colpo) non bastano a disperdere. Le atmosfere tipicamente 'alla Donzelli', da fiaba adulta sempre in equilibrio tra incanto e cinismo, si sovrappongono, senza mai fondersi, al progetto originale, mettendone in evidenza la fragilità drammatica, senza che la poesia dell'amore per il quale esiste una condanna, ma non una definizione (un amore davvero 'alla Truffaut') riesca a trovare un solo accento di verità o di autentica urgenza (imbarazzante, in questo senso, la parentesi onirica post mortem). Restano alcuni tocchi pregevoli (l'albero sanguinante, i mobili dismessi dopo l'esecuzione), come relitti in un mare in calma piatta, senza che la tempesta si sia mai profilata all'orizzonte.