TRAMA
L’incontro tra Gemma, un’anziana che non può camminare, e Angela, la nuova badante rumena, porterà parecchi problemi. All’inizio.
RECENSIONI
Il primo lungo piano sequenza è un avvicinamento: il film dal mare aperto si accosta gradualmente alla terra e quindi alla civiltà, ma cosa essa sia non è dato sapere e non sarà facile stabilire. Mar Nero, esordio in sala del trentaquattrenne Federico Bondi, girato in 35 mm e distribuito dalla piccola Kairos Film, continua poi come confronto di caratteri: Gemma e Angela, padrona/badante, italiana/rumena, vecchia/giovane, l’una appassita e l’altra propulsiva, insomma Morte contro Vita – il marito di Gemma è appena scomparso, non a caso, una delle prime battute dedicata alla sua inumazione. In realtà, presto si realizza che è ancora un altro il nocciolo della questione: Mar Nero parla di sconfinamento. Processo graduale, che arriva al dunque senza fretta, dove il cammino equivale alla sostanza, questo diventa chiaro quando i presupposti iniziali risultano rivoltati: dall’incapacità tecnica di comunicare (lo scambio tra Enrico e Angela, ancora italiano/rumeno) all’impossibile dialogo bilingue tra Gemma e Nicolae che nel finale, assurdamente, sembrano comprendersi o perlomeno intuirsi, il percorso è compiuto – c’è una corrispondenza pensata anche a livello genealogico: gli incontri incrociati sono sempre paralleli sull’asse padre-figlio (il figlio di Gemma, il padre di Angela), a sottolineare che sconfinare incide profondamente quando investe il sangue del proprio sangue (Angela entra nei figli di Gemma – la cena natalizia -, Gemma entra in Nicolae – il corrispettivo pasto balcanico). Il regista, davanti a questa gamma di suggestioni, non applica un solo paradigma stilistico: apre con la significativa sequenza in camera fissa, depositata sul retro dell’auto per catturare i gesti, quindi avanza con pedinamento della protagonista in macchina a mano; se nella parte centrale, lo sbocciare del rapporto, l’asprezza è sfibrata e si declina perlopiù in campo e controcampo, la handycam di Gigi Martinucci tornerà nel finale in terra rumena, lo spezzone più ombreggiato, anche a livello interiore. Sceneggiata con Ugo Chiti (un carico di partecipazioni disomogenee, tra cui Gomorra), la pellicola patisce una chiusura sbrigativa, che sconta il binomio automatico scioglimento-pacificazione, e non manca di alcuni sprazzi didattici (la rispettiva diffidenza e attrazione dei vicini: metonimie di Razzismo e Sfruttamento) né di una struttura talvolta apertamente “a tappe” (l’incontro con il cantante rumeno e conseguente rifiuto di Angela), ma si riscatta con un’esattezza di confezione francamente innegabile. Sfruttando il potenziale paesaggistico al meglio, ovvero per marcare la specificità delle radici (a ogni livello: Bucarest è caratterizzata e peculiare proprio come la toscanità di Gemma), servendosi di musiche autoctone che dialogano apertamente con quelle italiane, il film stesso tiene ferma la consapevolezza di un’indipendenza complessiva: nel senso che è davvero autonomo – non porta la bandiera di nessuno – e si colloca lontano sia dall’emulazione di registri vendibili (l’argomento non è facile, anzi) sia dalla trappola delle velleità autoriali; quando vuole segnalare la propria appartenenza lo fa per mezzo di dati in codice (tra questi la presenza di Corso Salani); se si affida al sostrato simbolico lo inserisce nell’ordito narrativo senza renderlo il suo fine, mantenendo una certa complessità - i nomi: Angela è l’angelo fa il miracolo, innesca un processo di addolcimento altrui nell’ultima fase della vita; d’altronde Gemma è la materia opacizzata che però ha in sé la capacità di risplendere (in questo caso, come detto, è un’opera di rovesciamenti). L’obiettivo resta sempre lì, una messe di temi riassumibili nell’onnicomprensiva “conoscenza del diverso”, ma nei momenti favorevoli questo non si impone e affiora per vie traverse, può suonare provocatorio (l’amore e la maternità sono le basi della ragazza rumena, una missione alla quale consacrarsi, che ci è estranea come qualunque missione) o accendere derive simboliche indefinite, vedi i sogni di Gemma – è noto che gli anziani sognano molto -, dal sapore quasi montaliano (i cocci di vetro in bocca), che prima segnano il punto sul dolore di vivere e dopo lo sciolgono. In definitiva un film pieno di fili contrastanti, intrecciati tra loro o estranei al contesto che, se non si risolve nell’annunciato colpo di fulmine, costituisce però avvio stimolante per la strada del suo autore, consegnandoci soprattutto un doppio vibrante ritratto femminile: Gemma (Ilaria Occhini, migliore attrice a Locarno 2008), la disabile che riacquista vigore col proseguo del film (in tal senso è il film); Angela (Dorotheea Petre), il negativo della sconosciuta tornatoriana a cui premeva nascondersi, dato che vuole farsi riconoscere, mescolarsi e per questo si schiude. Pranzo di ferragosto, Il pugile e la ballerina, Mar Nero: quest’anno in Italia il povero cinema indie, seppure con le dovute differenze, sta sabotando la grande produzione attraverso la carta della semplicità e continua a uscirne con l’onore delle armi.