Documentario, Sala

MAPPLETHORPE

TRAMA

Il documentario, prodotto da HBO, ricostruisce vita e opera del fotografo Robert Mapplethorpe attraverso interviste e materiali inediti.

RECENSIONI


Robert Mapplethorpe, fotografo e artista - il «cupido sciupato», angelo perverso, geniale e bellissimo - scegliendo il sesso quale soggetto prediletto, spalancò un’area mai esplorata così esplicitamente dall’arte contemporanea, provocò un vero e proprio panico politico, forzò meritoriamente il dibattito sulla censura. Sì, perché solo pochi anni fa il lavoro di Mapplethorpe faceva paura: conservo un articolo del 1992 - il fotografo morto solo da tre anni - in cui si parla della clamorosa cancellazione del lancio londinese di un libro di foto al Victoria and Albert Museum, mentre il volume veniva ritirato dagli scaffali di Harrod’s (nello stesso anno, d'altro canto, un’indimenticabile antologica, curata da Germano Celant, veniva ospitata in Italia a Palazzo Fortuny, Venezia). La sua opera creava scompiglio perché esplorava il sesso in modo autentico, brutale, senza preferenze di genere, come pratica aperta a ogni scambio, plurima in ogni accezione, insaziabile, priva di filtri o moralistiche distinzioni tra passione e perversione. Non c’era teorizzazione alcuna dietro quelle immagini, né edulcorazione, furbizia, ammicco. La si diceva dunque volgare (Warhol, prima di ricredersi, definì così il suo lavoro), come se la vera volgarità non risiedesse, invece, nella studiata patinatura, nei procedimenti accorti per rendere quella materia iconograficamente accettabile. Mapplethorpe aveva scelto una strada più impervia, prima intuendo la possibilità di un riutilizzo in chiave artistica dell’effimero materiale porno, senza alcun tentativo di nobilitarlo, ma conservandolo nella sua essenza (le sue dirompenti tecniche miste), e poi mettendo in gioco se stesso, le sue amicizie, i suoi amori - stabili e occasionali - in lavori di candida, materiale, voluttuosa ostentazione: il rapporto interpersonale era infatti parte integrante del processo artistico, ne costituiva presupposto e chiave di lettura.


Mapplethorpe ha insomma conquistato il mondo portando alla luce pratiche spesso segrete, mostrando cose che in una galleria d’arte non si erano mai viste (un fisting, ad esempio), mettendo pene e palle su un piedistallo (la sua ironia, spesso incompresa), elevando il proibito a concesso e praticabile, agendo sulle rimozioni dello spettatore, invitandolo ad allargare la sua visione delle cose, ad accogliere ogni possibilità e nello stesso tempo costruendo un percorso creativo costantemente consapevole dei classici, che omaggiava latamente, alla sua maniera.
Oggi? Tutte le beghe e le restrizioni dimenticate, o quasi: esibizioni ovunque, le foto più scandalose, se capita, in una stanza a parte, con un cartello “vietato ai minori”, altrimenti no, in mostra con le altre, accanto ai meravigliosi fiori (ridisegnò il concetto di natura morta), ai ritratti (quello di Donald Sutherland, a mio avviso, è uno dei più belli del Novecento), a quella bandiera americana sbrindellata che sventola controsole. Com’è giusto che sia, le sue visioni hanno perso ogni sovrastruttura sordida che certi sguardi attribuivano loro per tornare a essere pure forme. Asettiche, chirurgiche, senza giudizi. A loro modo ritualistiche. Sempre potenti come altre mai.


Il documentario di Fenton Bailey e Randy Barbato, nella sua attenzione alle sfumature, nel suo scandaglio a 360 gradi, rende giustizia a questa figura straordinaria. Perché è approfondito, mai agiografico, ricco di materiale (vengono proposti anche brani di interviste inedite).
Perché le persone intervistate sono quelle giuste: assenti le due muse (Patti Smith - di cui si ascoltano dichiarazioni di repertorio - e Lisa Lyon), si susseguono i curatori della fondazione che porta il suo nome, amici, amanti, modelli, personaggi famosi da lui ritratti (Debbie Harry, Brooke Shields), i galleristi che credettero in lui, la sorella, il fratello assistente, i componenti del suo staff.
Perché la ricostruzione che ne scaturisce è accurata, non facilmente sbilanciata sulla provocazione, perfettamente cosciente dell’impossibilità di separare, nel suo caso, vita e arte: dall’infanzia alla scoperta del sacro fuoco, dalle difficoltà di far accettare il suo lavoro alla determinazione nell’imporlo («Ero convinto che quel che facevo fosse la cosa giusta da fare»), dalle reazioni sbigottite di alcuni galleristi agli entusiasmi decisivi di addetti ai lavori illuminati.
Perché questo lavoro si fa anche ritratto senza sconti di un uomo posseduto dal demone della fama, del successo, dei soldi, ma, d’altra parte, profondamente compenetrato nel suo ruolo di artista che aveva compreso che ottenere una qualsiasi reazione dal pubblico significava esercitare un potere su di esso; di creativo che, senza averne mai studiato la tecnica, concepiva la fotografia come scultura immediata (l’adorazione per il corpo nudo degli uomini di colore - il sodalizio con Ken Moody - nasceva soprattutto dalla compatta tonalità bronzea della loro pelle) e celebrazione neoclassica dell’armonia anatomica. Il tutto nella considerazione dell’ambiente, restituito con abili incursioni, con ricorso a contrappunto di immagini di repertorio (New York, Bond Street sono parte integrante della sua vita, dunque della sua opera). E poi l’Aids, il calvario, la coscienza della morte precoce, la frenesia creativa che ne conseguì, le ultime due mostre che lo consacrarono in maniera definitiva. In parallelo l’eredità lasciata dalla sua opera, il contributo dato alla fotografia come forma d’arte (le case d’asta che battono oggi le sue opere a cifre da capogiro, impensabili per degli scatti fotografici solo qualche lustro fa).
Perché mostra le ultime immagini pubbliche dell’americano, che fanno male quanto quell’autoritratto, in cui Mapplethorpe, impugnando un bastone con un teschio, il volto deturpato dalla malattia, ci guarda cosciente di avere alle spalle il mondo di tenebre che di lì a poco lo inghiottirà.

Presentato nella sezione Panorama - Berlinale 2016